L’imbuto dello Stato inefficiente

“La macchina statale è lenta e inefficace. La distribuzione delle funzioni e l’organizzazione delle amministrazioni sono obsolete, a partire da Palazzo Chigi, dove mancano le strutture necessarie e abbondano quelle superflue”, scrive Sabino Cassese giurista, accademico italiano e giudice emerito della Corte costituzionale. L’analisi del momento che stiamo vivendo e sullo scenario che si prospetta nel prossimo futuro è acuta. La pubblico volentieri

di Sabino Cassese

L’esito referendario ha definitivamente chiuso più di un trentennio di tentativi riformistici della Costituzione. Ci aspetta un periodo di turbolenza politica e di incertezze (ne sono prova il disorientamento generale in materia di elezioni e di formule elettorali e l’improvvisazione con cui viene gestito il Comune di Roma). Possiamo evitare un ulteriore declino soltanto se ci dotiamo di una struttura esecutiva robusta, che sappia rispondere agli indirizzi che le dà il Parlamento con le leggi. Diventa, quindi, importante dedicarsi ai «rami bassi», all’amministrazione, perché la macchina statale è lenta e inefficace. La distribuzione delle funzioni e l’organizzazione delle amministrazioni sono obsolete, a partire da Palazzo Chigi, dove mancano le strutture necessarie e abbondano quelle superflue. I processi produttivi sono arcaici e le procedure si concludono in tempi lunghissimi: basta pensare agli intoppi che incontra qualunque decisione pubblica complessa, dalla localizzazione di impianti industriali alla costruzione di strade, allo sfruttamento di giacimenti di fonti di energia. Il numero dei dipendenti pubblici rispetto alla popolazione non è alto, ma quelli scelti con concorso sono in molte amministrazioni la minoranza e la produttività oraria è bassa, se confrontata con quella degli impiegati pubblici di altri Paesi. Le maggiori iniziative d’interesse collettivo sono bloccate o vanno avanti tra enormi difficoltà. L’Italia, tra i primi dieci Paesi industriali, crolla verso il cinquantesimo posto se si valuta l’efficacia della sua strumentazione amministrativa.

A questi mali cronici, nell’ultimo ventennio si sono aggiunti altri guai: fallimento della contrattualizzazione dell’impiego pubblico, politicizzazione delle burocrazie, generalizzazione del sospetto di corruzione. Avviata nel 1992, la contrattualizzazione è fallita a causa dei sindacati confederali, che hanno riprodotto al loro interno i guasti del sindacalismo autonomo e sono stati incapaci di far prevalere gli interessi degli utenti su quelli dei dipendenti. Introdotto qualche anno più tardi, lo «spoils system», ha soddisfatto la fame di posti di un ceto politico privato delle due riserve precedenti (partecipazioni statali e banche pubbliche), ma ha reso dipendenti dai partiti gli impiegati, ai quali la Costituzione impone di essere imparziali: in questi giorni sono stati «salvati» 40 mila precari, senza che nessuno si chiedesse come siano stati reclutati e Ernesto Galli della Loggia ha messo molto bene in luce, sul Corriere della sera del 28 dicembre scorso, i guasti provocati dalla politicizzazione della dirigenza nel comune di Roma. Da ultimo, sul pubblico impiego si è abbattuto il sospetto, codificato in leggi, della corruzione.

Nei settanta anni di vita repubblicana, più della metà dei governi ha avuto un ministro incaricato di riformare l’amministrazione: segno che si era convinti della sua necessità. Dei 34 titolari della funzione, una decina hanno anche proposto ambiziosi disegni riformatori. Ma la loro breve durata e il fatto che lo spirito riformatore non è mai penetrato nel corpo dei dipendenti pubblici hanno reso inutili gli sforzi. Qualche cambiamento nella giusta direzione c’è stato, ma è stato sopravanzato dai mali amministrativi cronici (lentezza, assenza di motivazione, formalismo, culto dei precedenti, fuga dalle responsabilità, eccesso di controlli inutili, squilibrata distribuzione del personale e delle risorse finanziarie). Anche il governo Renzi si è mosso nella direzione giusta, ma ha sbagliato i tempi: le riforme amministrative hanno alti costi immediati e benefici ritardati; vanno quindi realizzate subito. Invece, la capitale riforma della dirigenza — forse troppo ambiziosa e troppo fiduciosa nel solo strumento legislativo — è stata lasciata per ultima ed è stata azzoppata in dirittura d’arrivo, nel momento di massima debolezza del governo, dall’azione congiunta dei vertici ministeriali e della Corte costituzionale. Gli Stati si reggono su due basi, la politica e l’amministrazione. La prima stabilisce i fini, la seconda appresta gli strumenti. Se la politica vacilla, come accadrà per qualche anno in Italia, a causa delle incertezze delle forze in campo, solo una buona amministrazione, attenta ai bisogni dei cittadini, può salvare il Paese dal declino.

Fonte: Corriere della Sera

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