L’impegno per ridurre il prezzo troppo alto pagato da donne e adolescenti

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lancio1Su oltre 100 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria nel mondo, 26 milioni sono  donne e ragazze in età riproduttiva e il 60 per cento delle morti materne prevenibili si verificano tra le donne che cercano di sopravvivere in una situazione di conflitto, disastro naturale o sfollamento.

Questo è altro leggo su l’ultimo Rapporto Unfpa, United Nations Fund for Population Activities, e per noi semplicemente Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, che dispiega un panorama tragico supportato da un fitto elenco di situazioni e di dati.

Uno riguarda ad esempio le differenze sostanziali tra uomini e donne che contribuiscono ad innalzare il rischio in qualsiasi situazione di crisi. Il primo è la disuguaglianza di genere che non solo persiste, ma aumenta durante le emergenze umanitarie. I conflitti che ostacolano i servizi per la salute, hanno fatto pagare il prezzo più alto a migliaia di donne e ragazze.

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Pertanto sono convinta che da queste emergenze che oramai sono parte della nostra quotidianità bisogna trarre nuovi insegnamenti, nuove politiche su come affrontare la questione di genere, ancora per molti versi incompresa, sebbene essa rappresenti un passaggio determinante per il rafforzamento dei diritti umani.

Nessuno può smentirmi quando dico che nei paesi sviluppati, in quelli in via di sviluppo e nelle aree di crisi, è sempre la donna a pagare il conto più salato. Si tenga a mente che a causa di danni, distruzioni, situazioni di stress, di perdita e di paura provocati dalle crisi umanitarie, molte donne e ragazze incinte partoriscono senza l’assistenza di personale qualificato, senza farmaci anti-retrovirali. Per non parlare poi dell’assenza di assitenza medica per le vittime di stupro.

A volte lo stupro è utilizzato come arma di guerra, altre per terrorizzare intere comunità che rifiutavano di allearsi con un gruppo armato piuttosto che con un altro, attraverso la minaccia di altre aggressioni. I dati a disposizione informano pure che in un caso su 10 la vittima di violenze sessuali, nelle aree interessate da un conflitto, è di sesso maschile. Ma le altre nove – non va dimenticato – sono di sesso femminile.

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Le migrazioni verso l’Europa e l’Italia non si fermano. «Nel 2016 i numeri degli arrivi in Italia e in Europa sono simili a quelli del 2015 ma aumentano le donne e i bambini: sono il 55 per cento delle persone che arrivano», informa un rapporto dell’Unhcr, dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. E’ una realtà che non si può né cancellare, né ignorare, né tantomeno sfuggirvi erigendo muri, o spargendo il veleno dell’intolleranza come fa la Lega.

Leggo sempre nell’ultimo Rapporto Unfpa che la mancanza di privacy in molti campi per sfollati ha gravi conseguenze per la salute sessuale e riproduttiva di donne e ragazze. Molte di loro aspettano che faccia buio per usare le latrine e i bagni per lavarsi, soprattutto le ragazze con le mestruazioni (Plan International, 2013). Questo le mette particolarmente a rischio di subire violenze (UNIFEM, 2010; Plan International, 2013). La mancanza di privacy può causare disagio e stress anche nelle donne che allattano, il che può provocare interruzioni del flusso del latte, generare insicurezza nella madre e ripercuotersi sulla nutrizione, sulla salute e sulla sopravvivenza del bambino. Sono situazioni ben note ai volontari della Caritas, che m’impegno a diffondere, poiché più gente sa meglio si avvia una discussione democratica su come va gestita questa emergenza per migliorarla e migliorarci sempre di più. E quindi, un’accoglienza che non gestisca le masse tout-court, ma che tenga in conto la differenza di genere dev’essere l’impegno prioritario della politica giusta.

                                                                                           Arianna Censi

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