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Internet è un brutto posto per le donne?

Un lungo articolo racconta cosa succede a «qualsiasi donna con una connessione a Internet», con conseguenze più gravi di quanto si pensi, e senza che possano fare molto. Il tema – di cui giornaliste e femministe di tutto il mondo si occupano da tempo con insistenza – è stato recentemente riproposto dalla giornalista statunitense Amanda Hess in un lungo e discusso articolo sul Pacific Standard intitolato: “Perché le donne non sono le benvenute su Internet”. Vediamo cosa dice

Camminare da sola a New York

Un video girato con una telecamera nascosta mostra gli abusi verbali subiti da una donna a passeggio nella metropoli statunitense. È stato visto milioni di volte in poche ore, sta facendo discutere molto ed è già costato insulti e minacce di morte all’attrice e all’organizzazione che lo ha prodotto

di Giulia Siviero
Da qualche giorno circola online un video in cui si vede una donna, Shoshana B. Roberts, attrice di 24 anni, camminare in silenzio per alcuni quartieri di New York (Midtown, il Financial District, SoHo, Harlem) facendosi riprendere di nascosto con una videocamera. In dieci ore la donna ha ricevuto decine di commenti, fischi e attenzioni da un centinaio di persone (nel video, dice il regista, è andato perso l’80 per cento di quello che è successo).

Il video è stato pensato e realizzato da Rob Bliss, che gestisce un’agenzia di marketing, e fa parte di una campagna di Hollaback, un’organizzazione che lavora in tutto il mondo contro le molestie di genere e che nel suo rapporto ha documentato un aumento nel corso dell’ultimo anno del 42 per cento delle molestie alle donne per le strade di New York.

Il video ha avuto molto successo, è stato visto in poche ore milioni di volte, ha ricevuto migliaia di commenti, ha avuto delle conseguenze anche per chi l’ha girato e ne ha preso parte, e ha fatto nascere un intenso dibattito intorno alle molestie sessuali contro le donne (alimentate forse anche dal diffuso equivoco linguistico che porta molti a confondere le molestie sessuali esclusivamente con le violenze sessuali). Il Washington Post ha definito questo dibattito, per le forme che ha preso, «inquietante».

Cosa è successo dopo la pubblicazione del video? 

Shoshana B. Roberts e le persone che lavorano nell’ufficio di Brooklyn dell’organizzazione Hollaback hanno ricevuto minacce di morte e di stupro. Alcune di queste sono state inviate direttamente via e-mail all’attrice. Queste minacce, precisa il Wall Street Journal citando degli esperti di violenza, «sono state denunciate alla polizia di New York e sottolineano con quanta noncuranza alcune persone considerino le molestie per strada». Lo stesso regista ha spiegato che il video sta avendo «un’eco nella vita reale».

Emily May, cofondatrice e direttrice di Hollaback, ha detto: «Il video colpisce un nervo scoperto. Penso che quello che stanno cercando di fare con le minacce è spaventare Shoshana e spaventare noi in modo da non farci più parlare. Ma tutte e due diciamo “no”: abbiamo bisogno di raccontare queste cose perché se non lo facciamo, se non insistiamo, allora niente di tutto questo potrà mai cambiare».

Le reazioni

La discussione principale intorno al video si è concentrata sulla distinzione tra le reazioni che si vedono al passaggio della donna: quella verbale e quella che, per così dire, passa ai fatti. La maggior parte degli uomini nel video apostrofano Shoshana B. Roberts, la salutano (“ciao bella”), le chiedono come va, fanno dei commenti sul suo aspetto fisico (“sexy”); alcuni la invitano a sorridere, altri le fanno notare che se qualcuno ti dice che sei bella dovresti almeno ringraziare. Ci sono poi dei casi in cui alcuni uomini si sono messi a seguirla per diversi minuti o le hanno chiesto il numero di telefono. Questa distinzione è stata usata per dire che la prima categoria non costituisce una molestia mentre la seconda sì, negando dunque proprio quello che invece il video vuole mostrare e sottolineando che nel migliore dei casi non c’è alcuna percezione reale del problema, mentre nel peggiore c’è una deliberata volontà di rimuovere o negare.

La giornalista statunitense Amanda Hess (che si occupa soprattutto di violenza e questioni di genere) fa notare come la maggior parte dei commenti al video, da parte degli uomini, sia esattamente questa: si va cioè dalla negazione che quelle reazioni possano essere considerate delle molestie, al fatto che sono semplicemente fastidiose, fino all’affermazione che il rifiuto di rispondere a un complimento sia da parte della donna una vera e propria scortesia.

Commenta Hess che gli uomini non sempre hanno idea di quello che accade alle donne sole per strada, perché «naturalmente sono soprattutto le donne a essere prese di mira solo per il fatto di essere uscite di casa, ed essere poi trattate come maleducate perché non accettano graziosamente questa situazione». Ma «se non ti rendi conto di questa cosa dopo aver guardato il video, il problema non sono solo i ragazzi ripresi mentre urlano a Roberts. Il problema sei tu». Altre hanno fatto notare come gli uomini si sentano totalmente liberi di richiamare con insistenza l’attenzione di una donna (e come siano infastiditi quando non la ricevono) e come «le donne non possano essere a loro agio in uno spazio pubblico alla pari degli uomini». Anche i commenti che possono sembrare più innocui, insomma, in realtà costituiscono delle molestie. Lo spiegano i protagonisti del video. L’attrice stessa, innanzitutto, che racconta le sue reazioni mentre il video veniva girato e subito dopo:
«Mi veniva da piangere (…) quella notte ho pianto. Ho messo della musica. Ho fatto dei respiri profondi. Ho abbracciato il mio ragazzo. Ho chiamato mia madre solo perché avevo bisogno di sentirmi dire che mi voleva bene, che stavo facendo tutto questo perché credo in questa causa; avevo bisogno di sentirmi dire che era orgogliosa di me, e lei lo è».

Emily May, di Hollaback, spiega poi che l’obiettivo del video non è certo dimostrare che salutare qualcuna per la strada o farle un complimento è qualcosa di necessariamente negativo. Ma anche che non si può non inserire tali atteggiamenti in un contesto più ampio, quello cioè di un diffuso sessismo, dimostrato dal fatto che le molestie ricevute per la strada sono persistenti, pervasive e hanno conseguenze reali su chi le riceve: «Non necessariamente si può pensare a queste parole e frasi come a delle molestie. Ma vanno considerate l’intenzione e l’intonazione della voce. Cambiano tutto». Cambiano anche, spiega Shoshana B. Roberts, il «linguaggio del corpo: mi devo censurare. Non mi fanno sentire al sicuro». Aggiunge il regista che si tratta anche di una questione quantitativa: «Tanti uomini non capiscono il problema e molti hanno difficoltà a mettersi nei panni delle donne in queste situazioni. Credono sia una coincidenza, un caso. Ognuno di loro fa la sua singola cosa, dicono “Hey Baby”, e il gioco è fatto. Ma quello che non vedono è che tutti gli altri stanno facendo la stessa cosa: nessuno di loro arriva a sperimentare quello che collettivamente accade giorno dopo giorno».

Nel video si fa infine notare che Roberts cammina in silenzio, in pieno giorno, e indossa dei jeans e una maglietta a girocollo. Questo, spiega il regista, per demolire altri luoghi comuni molto diffusi: quello secondo cui si viene molestate per quello che si sta indossando – «se va in giro vestita così…» – o per il proprio “atteggiamento” o per il semplice fatto di trovarsi per strada da soli in piena notte: «Tutto questo accade a prescindere». In un suo recente articolo la giornalista femminista del Guardian Jessica Valenti ricorda che lo stu­pro e la vio­lenza di genere riguardano donne di tutte le età, classi, cul­tura, etnia e fede, che le donne vengono molestate «da sobrie, da ubriache, in gonna o con i pantaloni della tuta», e si chiede: «Crediamo davvero che solo le donne possano fermare gli stupratori?».

Le critiche al video

Diverse critiche al video (stavolta da parte di donne impegnate in questioni di genere) hanno riguardato l’etnia degli uomini che compaiono: sono quasi solo neri e latinoamericani. Sono stati dunque suggeriti altri progetti più completi ma forse meno conosciuti che presentano la stessa situazione (il regista ha comunque dato delle spiegazioni su questo preciso punto).
L’altra principale critica, portata avanti tra le altre da Jessica Valenti, ha a che fare con la reale efficacia del video stesso.

Lo scopo di un video come questo «non è quello di ricordare alle donne quanto terribile possa essere camminare per strada ed essere molestate, credetemi, lo sappiamo bene», dice la giornalista, ma quello di creare una maggiore consapevolezza negli uomini. E si chiede: «Quanti episodi filmati di nascosto, screenshot di minacce di stupro o filmati in ascensore dovremmo ancora rendere pubblici perché gli uomini prendano parola contro tutto questo? Sono stanca che le donne debbano costantemente “dimostrare” che la discriminazione e le molestie esistono». E anche quando questo avviene (quando cioè se ne ha testimonianza diretta) per molti non è sufficiente: i commenti al video ne sono solo l’ultima dimostrazione. «In realtà, tutto quello che le donne diranno o mostreranno non sarà mai abbastanza».
Per questo Jessica Valenti, pur non negando il valore del video e avendo lei stessa in passato dimostrato le dinamiche sessiste attraverso la pubblicazione di messaggi ricevuti in prima persona, afferma che un aumento di consapevolezza non corrisponde a un reale cambiamento nei comportamenti: «La condivisione di una prova non modificherà la credenza di alcuni uomini che le molestie di strada non sono poi così terribili come le donne dicono». E conclude: «Il sessismo non è solamente qualcosa che di tanto in tanto alza la sua brutta testa: esiste ogni giorno, in ogni spazio. E gli uomini, scommetto – prova o non prova – sanno dentro di loro qual è la verità: il mondo è un posto enormemente diverso e molto meno gentile, se sei una donna».

C’è dunque bisogno di più di consapevolezza, certamente, ma anche di una maggiore azione e responsabilità da parte degli uomini verso gli altri uomini.

Fonte: ilPost

31 ottobre 2014

 

«Le donne non dovrebbero ridere in pubblico»

Lo ha detto il vice-primo ministro turco, che fa parte dello stesso partito di Erdoğan: per protesta moltissime donne hanno pubblicato su Twitter le loro foto mentre ridono

Lunedì 28 luglio, durante la festa di Eid al-Fitr – una delle più importanti del mondo islamico, che segna la fine del Ramadan – il vice-primo ministro turco Bülent Arinç (del partito al governo AKP, conservatore e di ispirazione islamica) ha tenuto un discorso sulla regressione morale che sarebbe in corso in Turchia. Arinç ha condannato il consumismo, chi ha troppe macchine per esempio, e ha accusato la televisione e i media in generale di trasformare gli adolescenti in “drogati del sesso”. E naturalmente ha parlato di donne:

«Dove sono le nostre ragazze, che arrossiscono, abbassano la testa e volgono lo sguardo lontano, quando guardiamo il loro viso, diventando un simbolo di castità? (…) La castità è molto importante. Non è solo una parola, si tratta di un ornamento [per le donne]. Una donna dovrebbe essere casta. Dovrebbe conoscere la differenza tra pubblico e privato. E non dovrebbe ridere in pubblico».

Dopo queste dichiarazioni, migliaia di donne, non solo turche, hanno pubblicato su Twitter molte foto che le ritraggono mentre ridono, con l’hashtag #direnkahkaha (resistere ridere) e #direnkadin (resistere donna).

La Turchia è storicamente considerato uno dei paesi più progressisti in materia di diritti di genere dell’area mediorientale. Alcuni sviluppi recenti, tuttavia, sembrano non confermare più questa percezione. Da una recente ricerca fatta su un campione di 60 mila donne e condotta dalla Kamer, una ONG che si occupa di diritti delle donne in Turchia, risulta che la percentuale di matrimoni fra minori è del 33 per cento. Negli ultimi 10 anni, inoltre, almeno 4711 donne si sono sposate a 16 e 17 anni, 2217 fra 13 e 15, 54 sotto i 12 anni. Inoltre, in Turchia più del 40 per cento della popolazione femminile ha subito violenza domestica, e si sono verificati più di 120 casi di femicidio dall’inizio di quest’anno.

31 luglio 2014