#direnkadin (#resisteredonna) con gli uomini che manifestano in minigonna. NON era mai accaduto prima in Turchia

Proteste per Ozgecan Aslan, a Ankara, Turchia, 21 febbraio 2015 (ADEM ALTAN/AFP/Getty Images)

Proteste per Ozgecan Aslan, a Ankara, Turchia, 21 febbraio 2015 (ADEM ALTAN/AFP/Getty Images)

Dopo il brutale stupro e assassinio di una studentessa di 20 anni, migliaia di attiviste hanno manifestato sostenute da uomini che per solidarietà indossavano una minigonna

di Redazione

Lo scorso 11 febbraio una studentessa turca di 20 anni, Özgecan Aslan, è stata rapita e uccisa a Mersin, nell’Anatolia meridionale, dal conducente di un minibus. Dopo aver cercato di resistere allo stupro con una bomboletta spray al peperoncino, la ragazza è stata accoltellata, picchiata e bruciata: il suo corpo è stato gettato in un fiume e ritrovato due giorni dopo. Anche se il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu ha promesso di «trovare i responsabili e punirli», in molti e molte hanno ritenuto la risposta del governo insufficiente, viste anche le frequenti dichiarazioni del presidente turco Edogan e dei rappresentanti del governo stesso contro le donne e i loro diritti.

Dopo l’uccisione di Özgecan Aslan migliaia di donne in tutto il paese hanno organizzato una serie di proteste e cortei, sostenute anche da diversi uomini che hanno sfilato al loro fianco dimostrando la loro solidarietà: indossavano delle minigonne, come la maggior parte delle loro compagne, e hanno condiviso le loro foto sui social network con l’hashtag #ozgecanicinminietekgiy (“indossa una minigonna per Özgecan”).

BBC scrive che la campagna ha avuto inizio in Azerbaigian e che il primo slogan lanciato su Facebook era: «Se una minigonna è responsabile di tutto questo, se indossare una minigonna significa immoralità e impudicizia, se una donna che indossa una minigonna è un invito alla violenza, allora stuprate anche noi». Il fatto di indossare una minigonna è uno degli argomenti più banali e diffusi per giustificare la violenza di genere.

L’attivista turca Hulya Gulbahar ha detto alla CNN che la protesta della minigonna «è molto efficace» e che si tratta delle prima volta che i diritti delle donne vengono sostenuti in Turchia in modo così ampio: «Il movimento delle donne sta cercando di dire alla società: quello che indosso non è un pretesto per uno stupro o per le molestie sessuali. Ma la società non vuole sentire queste voci. La gente cerca sempre di trovare delle scuse agli stupri e agli omicidi. La protesta dimostra che una gonna corta non è una scusa per uno stupro».

Il diffuso e generale problema della violenza di genere riguarda, naturalmente, anche la Turchia: le organizzazioni per i diritti delle donne dicono che negli ultimi dieci anni c’è stato un aumento considerevole di casi. Solo lo scorso anno in Turchia quasi 300 donne sono state uccise da parte di uomini, più di 100 sono state violentate e più del 40 per cento della popolazione femminile ha subìto violenza domestica. Da una recente ricerca fatta su un campione di 60 mila donne e condotta dalla Kamer, una ONG che si occupa di diritti delle donne in Turchia, risulta che negli ultimi dieci anni 4.711 donne si sono sposate a 16 e 17 anni; 2.217 fra 13 e 15; 54 con meno di 12 anni. L’età legale per il matrimonio in Turchia è stata recentemente portata da 15 da 17 anni, ma molte famiglie cambiano la data di nascita delle figlie in modo che possano contrarre legalmente un matrimonio. Il tasso di matrimoni forzati in età precoce negli ultimi 10 anni è di circa il 33 per cento. Sono molte le attiviste femministe che da tempo chiedono una nuova legislazione in materia: «Gli uomini uccidono e stuprano e torturano le donne. Lo stato, uno stato-di-uomini, li protegge», ha detto una di loro.

All’origine della diffusione di queste proteste contro i femminicidi (giudicate molto importanti a livello simbolico) c’è infatti il patriarcato radicato nella società turca, giustificato a livello politico. Durante una conferenza sulla condizione femminile organizzata in Turchia lo scorso novembre il presidente Recep Tayyip Erdoğan – che ha cercato più volte di modificare in senso restrittivo la legge sull’aborto – aveva per esempio spiegato che «Non si può creare la parità tra uomini e donne: è qualcosa contro natura, perché la loro stessa natura è diversa»; qualche mese prima il vice-primo ministro turco Bülent Arinç (del partito al governo AKP, conservatore e di ispirazione islamica) aveva tenuto un discorso sulla regressione morale che sarebbe in corso in Turchia. Arinç aveva condannato il consumismo, aveva accusato la televisione e i media in generale di trasformare gli adolescenti in “drogati del sesso”. E naturalmente aveva parlato di donne, dicendo:

«Dove sono finite le nostre ragazze che arrossiscono, abbassano la testa e volgono lo sguardo lontano, quando guardiamo il loro viso, diventando un simbolo di castità? (…) La castità è molto importante. Non è solo una parola, si tratta di un ornamento [per le donne]. Una donna dovrebbe essere casta. Dovrebbe conoscere la differenza tra pubblico e privato. E non dovrebbe ridere in pubblico».

Dopo quelle dichiarazioni migliaia di donne, non solo turche, avevano pubblicato su Twitter molte foto che le ritraevano mentre ridevano, con l’hashtag #direnkahkaha (#resistereridere) e #direnkadin (#resisteredonna).

25 febbraio 2015

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