“Io non voglio morire. Ma sto morendo. E voglio farlo alle mie condizioni. Non direi a nessun altro che dovrebbe scegliere di morire con dignità. La mia domanda è: chi ha il diritto di dirmi che non merito di fare una scelta del genere? Che merito di soffrire per settimane o mesi dolori tremendi, sia fisici sia mentali? Perché qualcun altro dovrebbe avere il diritto di prendere una decisione del genere per me?” (Brittany Maynard, My right to death with dignity at 29, Brittany Maynard, 9 ottobre 2014, CNN).
di Chiara Lalli*
A gennaio 2014, dopo anni di insopportabili mal di testa, Brittany Maynard scopre di avere un tumore al cervello. Ha 29 anni.
Il glioblastoma è il più aggressivo e mortale dei tumori cerebrali, la prognosi è di 6 mesi di vita. Come ricorda il video, in cui Maynard racconta la sua storia e spiega la decisione di morire alle sue condizioni, sono pochissimi i pazienti che sopravvivono oltre i 3 anni nonostante i trattamenti.
“La mia famiglia ha sperato in un miracolo”, racconta.
“Magari la risonanza è sbagliata? Magari hanno sbagliato qualcosa?”, ricorda la madre di Maynard. La realtà è indifferente però alle speranze e al rifiuto di una diagnosi tanto impietosa.
Maynard decide allora di andare in Oregon, dove dal 1997 è in vigore il Death with Dignity Act.
Le sue condizioni rientrano in quelle previste dalla legge. Il solo fatto di poter decidere quando interrompere la propria vita diventata insopportabile e senza prospettiva di miglioramento è rassicurante (“I could request and receive a prescription from a physician for medication that I could self-ingest to end my dying process if it becomes unbearable”) – è un dato comune in chi è malato in modo irreversibile e la cui prognosi indica sofferenze difficilmente trattabili.
Non è solo il dolore, è anche voler mantenere il proprio confine di dignità, forse anche recuperare – in modo insoddisfacente e parziale – il controllo sulla propria vita.
È un sollievo – dice Maynard – pensare di non dover morire nel modo in cui mi hanno detto che mi farebbe morire il tumore.
Aveva considerato di morire in un hospice, ma anche con le cure palliative avrebbe potuto soffrire, sviluppando una resistenza alla morfina e ritrovandosi a vivere cambiamenti motori, cognitivi, di personalità, nel linguaggio – insomma, un profondo e doloroso stravolgimento di un’esistenza comunque prossima alla fine.
La giovane età e il fatto che il suo corpo sia sano costituisce un ulteriore rischio: “Potrei sopravvivere a lungo anche se il tumore sta mangiando il mio cervello. Soffrire con molta probabilità per settimane in un hospice, forse per mesi. E la mia famiglia dovrebbe assistere a tutto questo. Non voglio questo scenario da incubo per loro”.
La questione che per alcuni è “controversa” sembra invece davvero semplice (dolorosa, certo): “Perché qualcun altro dovrebbe avere il diritto di prendere una decisione del genere per me?”.
In altre parole e se proprio servissero i sottotitoli: chi ha il diritto di decidere al posto mio? Chi dovrebbe avere – senza il mio consenso – la possibilità di dirmi di sopportare, se non voglio, sofferenze inutili e intrattabili?
Maynard ha deciso di morire con la propria famiglia accanto, nella sua stanza, senza aspettare e senza sopportare l’insopportabile.
“Tra il soffrire e il decidere quando è abbastanza” – dice il marito – “è rassicurante che possa scegliere, che questa possibilità esista. Sarà lei a decidere quando è ora”. E la madre aggiunge che non può che andare così, perché Brittany deve poter vivere come vuole, prendere decisioni, essere cioè com’è sempre stata.
Sono solo 5 gli stati in USA che permettono ai malati terminali di decidere come e quando morire. Per Maynard è ingiusto che per la maggior parte delle persone non esista la possibilità di scegliere di morire dignitosamente.
Quello che dice somiglia alle parole di molti altri.
Come Piergiorgio Welby: “Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio … è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti”.
O Peter Goodwin, medico e sostenitore del diritto di morire: “Se si pensa al suicidio, è impulsivo, spesso violento, quasi sempre solitario. Questo invece è un processo che avviene con il supporto della famiglia, dopo un’attenta valutazione. È una morte gentile”.
The Brittany Maynard Fund ha l’intento di allargare a tutti la possibilità di scegliere: “To expand the death-with-dignity option to all”.
Perché “Death with dignity is an option every person deserves, to reduce suffering at the end of life and die in comfort and control, with dignity”.
* Chiara Lalli, Filosofa e giornalista, il suo ultimo libro è “A. La verità, vi prego, sull’aborto”
Fonte: Wired
21 settembre 2014