C’era una volta quando i bambini potevano uscire senza pericolo

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Gli atti sessuali con minorenni, sono passati dai trecentosessantaquattro a quattrocentotrentotto; quelli di violenza sessuale aggravata da duecentosessantadue a trecentosettantuno; quelli legati a materiale pedopornografico con settanta bambine coinvolte nel 2014 e tredici dieci anni addietro; e da settecentocinquantuno a millequattrocento e rotti, i maltrattamenti in famiglia

di Tania Careddu

Uno dei pochi indicatori in crescita nel Belpaese? La violenza sui minori, soprattutto sulle bambine e sulle adolescenti. Dalle tremila e trecento violenze del 2004 alle cinquemila e trecento, dieci anni dopo. In questo modo: i casi di omicidio volontario sono passati da ventisette a trentaquattro; quelli di “abuso dei mezzi di correzione o disciplina” dai centoventinove ai duecentottantonove; quelli di abbandono dei minori da duecentotrentaquattro a quattrocentoquattro.

E ancora: gli atti sessuali con minorenni, sono passati dai trecentosessantaquattro a quattrocentotrentotto; quelli di violenza sessuale aggravata da duecentosessantadue a trecentosettantuno; quelli legati a materiale pedopornografico con settanta bambine coinvolte nel 2014 e tredici dieci anni addietro; e da settecentocinquantuno a millequattrocento e rotti, i maltrattamenti in famiglia.

Che è il contesto più pericoloso. Non solo perché è quello in cui si consuma ogni tipo di violenza più che altrove. Ma anche perché è lì che si muovono i primi passi del pensiero. E di un sentire comune. Che, ancora oggi, nelle nuove generazioni ha il suono (rumore) di stereotipo. Donna uguale madre, oggetto sessuale o femme fatale, quando non è stupida, isterica, distratta. Sottomessa all’uomo pater familias, e inserita nel mondo del lavoro a discapito del suo ruolo di madre. Un’idea che rimanda a una condizione di subalternità, con ricadute nella violenza fisica e psichica, in linea con una visione di essere (umano) senza identità.

E sebbene le evidenze dei dati riferiscano della violenza come di un fenomeno trasversale, gli adolescenti intervistati da Terres des hommes, che ha condotto la ricerca nelle scuole italiane su un campione di milleseicento ragazzi e ragazze dai quattordici ai diciannove anni, sembrano sottostimarlo. O, nella migliore delle ipotesi, ridurlo a un fatto privato. Che riguarda poche famiglie “senza educazione e molto povere”. O riconducibile a una manciata di uomini “vittime di una momentanea perdita di controllo”. Dando alla violenza, una connotazione socio-economica. E poco, troppo poco, psichica.

Emerge, con amarezza, che i ragazzi non sono ancora (?) pronti a una reale uguaglianza di genere. Anche perché ammettono di avere la consapevolezza di essere immersi in un sistema che tende a “rinforzare gli stereotipi e la violenza di genere”, frutto dell’anacronistica cultura della “costola dell’uomo”.

E però, chiedono di essere aiutati a superarla. Sia con l’introduzione di “ore di educazione per la prevenzione della violenza sulle donne e per il rispetto dell’identità di genere”, sia con l’inserimento di Internet a scuola come “strumento di apprendimento” e come “oggetto di insegnamento”.

Una richiesta conseguente all’esperienza di sexting. Che vorrebbero fare in libertà, pensando di essere in grado di “proteggere la propria privacy” o fidandosi ciecamente della rete, ma di fronte alla quale inorridiscono quando vedono “le proprie immagini a sfondo sessuale circolare, senza il proprio consenso, on line o sui cellulari altrui”: la sentono “grave quanto subire una violenza fisica”.

In un’Italia che reagisce e si oppone (chapeau), con mozioni parlamentari – ultima quella contro i matrimoni forzati e precoci – e attraverso campagne contro le mutilazioni genitali femminili, quello che deve cambiare radicalmente è il pensiero comune. Troppo comune.

Fonte: altrenotizie

16 ottobre 2015

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