L’inizio di una delle più famose raccolte di racconti di Alice Munro, che ha vinto il Nobel per la Letteratura 2013
Alice Munro, la scrittrice canadese a cui è stato attribuito il Nobel per la Letteratura del 2013, aveva vinto per tre volte il Governor General’s Award – importante premio per le arti canadese – e altre due volte era stata nel lotto dei nominati. Nel 1978 a essere premiato il suo libro Chi ti credi di essere?, pubblicato in Italia prima da E/O e poi da Einaudi: che è una raccolta di racconti – come tutte le opere di Munro – e che comincia con “Botte da re” (qui nella traduzione per Einaudi di Susanna Basso).
Botte da re. La promessa arrivava da Flo. Adesso te le prendi, e saranno botte da re.
Indugiando sulla lingua di Flo, l’espressione si caricava di decorative gualdrappe. Rose aveva un bisogno di immaginare le cose, di pedinare assurdità, che superava anche quello di tenersi lontano dai guai, perciò, invece di prendere la minaccia sul serio, si perdeva a rimuginare: ma come saranno le botte da re? Si inventò un viale alberato, una folla di spettatori eleganti, dei cavalli bianchi, degli schiavi neri. Qualcuno si inginocchiava e il sangue schizzava copioso come stendardi al vento. Una cerimonia selvaggia e stupenda. Nella vita vera neanche si avvicinavano a tanto splendore; c’era giusto Flo che tentava di conferire all’evento un’aria di rincresciuta ineluttabilità. Rose e suo padre invece varcavano subito la soglia del presentabile.
Era suo padre il re delle botte da re. Quelle che passava Flo non arrivavano mai a tanto; erano lesti ceffoni o sberle rifilate con l’attenzione sempre rivolta altrove. Levati dai piedi, diceva. Fatti gli affari tuoi. Togliti quell’espressione dalla faccia.
Abitavano in un retrobottega ad Hanratty, nell’Ontario. Erano in quattro: Rose, suo padre, Flo, e Brian, il fratellastro minore di Rose. Il negozio in realtà era una casa, acquistata dai genitori di Rose ai tempi del loro matrimonio, quando avevano avviato l’attività di tappezzieri e restauratori di mobili. Sua madre era brava a tappezzare. Rose avrebbe dovuto ereditare da entrambi le mani d’oro, un innato gusto per i tessuti e un occhio acuto e pratico nelle riparazioni, ma cosí non era andata. Era maldestra e se si rompeva qualcosa non vedeva l’ora di spazzare i cocci e buttare via tutto.
Sua madre era morta. Quel pomeriggio aveva detto al padre di Rose: – Non so se riesco a spiegare come mi sento. È come se avessi un uovo sodo nel petto, con il guscio e tutto –. Prima di sera era morta: aveva un grumo di sangue in un polmone. Al tempo Rose era una neonata in culla, perciò di tutto questo non ricordava niente. L’aveva sentito raccontare da Flo, che a sua volta doveva averlo sentito da suo padre. Flo era comparsa di lí a poco, a tirar su lei dalla culla, sposare il padre e trasformare il tinello in un negozio di alimentari. Per Rose, la casa era sempre stata cosí e Flo era da sempre sua madre, quindi immaginava i circa sedici mesi che i suoi genitori avevano passato insieme come un tempo armonioso, di gran lunga piú educato e pacifico, con piccoli tocchi di abbondanza. Non aveva granché a cui rifarsi, tranne certi portauovo comprati dalla madre, con un delicato decoro di uccelli e foglie di vite, e disegnati con una specie d’inchiostro rosso che, peraltro, cominciava a sbiadire. Non restavano libri né vestiti né foto di sua madre. Il padre doveva aver eliminato tutto quanto, o forse era stata Flo. L’unico racconto su sua madre, quello del modo in cui era morta, stranamente suonava come una concessione fatta contro voglia. A Flo piacevano i particolari delle morti: le cose che la gente diceva, il modo in cui si ribellava, cercava di scendere dal letto, imprecava o rideva (succede qualche volta); eppure, quando ricordava l’episodio dell’uovo sodo, lo faceva sembrare un po’ cretino, come se sua madre fosse il tipo di persona che davvero crede sia possibile ingoiare un uovo intero.
Suo padre aveva un capanno dietro il negozio dove andava ad aggiustare e restaurare i mobili. Impagliava sedili e schienali di sedie, riparava arredi in vimini, stuccava crepe, montava gambe rotte; il tutto con perfetta maestria, e a prezzi contenuti. Era il suo vanto: strabiliare la clientela con lavori ben fatti a costi bassi, per non dire ridicoli. Magari durante la Grande Crisi nessuno poteva permettersi di pagare di piú, ma lui continuò quella pratica anche durante la guerra, e negli anni di prosperità che la seguirono, fino a quando morí. Con Flo non discuteva mai di quanto si faceva pagare o di quanto gli era dovuto. Alla sua morte, Flo dovette aprire la porta chiusa a chiave del capanno e tirare giú dai micidiali ganci dove lui teneva appeso il suo archivio tutti i vari foglietti e le buste stropicciate. Molte delle cose che trovò non erano affatto conti o ricevute, ma bollettini sul clima, informazioni sparse sull’orto, pensieri che aveva avuto voglia di annotare.
Mangiato prime patate novelle 25 giugno. Un record. Giorno di Buio del 1780, niente di sovrannaturale. Nuvole di cenere da foreste in fiamme. 16 agosto 1938. Tremendo tempor. verso sera. Fulmine colp. Chiesa presb. di Turberry Twp. Volontà di Dio? Scottare fragole per eliminare acidità. Tutte le cose sono vive. Spinoza.
Flo pensò che Spinoza fosse un ortaggio nuovo che il marito voleva coltivare, tipo broccoli o melanzane. Capitava spesso che volesse sperimentare. Mostrò il foglietto a Rose e le chiese se sapeva che cosa era una spinoza? Rose lo sapeva, almeno a grandi linee – al tempo era già ragazza –, ma negò. Aveva raggiunto un’età in cui le sembrava di non voler conoscere meglio né il padre, né Flo; ogni nuova scoperta veniva scartata con imbarazzo e orrore.
C’era una stufa nel capanno e molti scaffali nudi, ingombri di latte di pittura e vernice, gommalacca e trementina, barattoli coi pennelli a bagno e un certo numero di flaconi scuri e appiccicosi di sciroppo per la tosse. Cosa poteva spingere un uomo che tossiva in continuazione, perché si era aspirato una boccata di gas durante la guerra (quella che, nella prima infanzia di Rose, veniva definita non già la Prima Guerra, bensí l’Ultima), a passare le giornate respirando i vapori di vernici e solvente? Allora certe domande si facevano meno di oggi. Sulla panca fuori del negozio di Flo, nella bella stagione, venivano a sedersi parecchi anziani della zona, per chiacchierare o appisolarsi, e anche tra loro c’era qualcuno che tossiva di continuo. Il fatto è che, piano piano e senza troppo scalpore, morivano di quello che allora veniva definito in tono relativamente neutro «mal di fabbrica». Avevano lavorato una vita alla fonderia in paese e ora se ne stavano lí seduti con le loro facce itteriche e sciupate, a tossire e sghignazzare, tra insulse oscenità sulle passanti o sulle ragazze in bicicletta.
Dal capanno non usciva solo il suono della tosse, ma anche una voce, un parlottio continuo ora severo, ora incoraggiante, di solito appena troppo basso per poter distinguere le parole. Piú lento, quando suo padre era concentrato su un lavoro difficile, e piú allegro e spedito quando faceva qualcosa di poco impegnativo, come dipingere o scartavetrare. Ogni tanto qualche parola si liberava e restava cosí, chiara e insulsa, a mezz’aria. Se si rendeva conto che loro erano fuori, lui dava un rapido colpo di tosse di copertura, seguito da un trangugio e da un silenzio vigile, innaturale.
«Maccheroni, salamini, Botticelli, fagiolini…»
Che cosa poteva voler dire? Rose ripeteva spesso quelle cose tra sé e sé. Non ebbe mai il coraggio di chiederglielo. La persona che pronunciava tali parole e quella che si rivolgeva a lei in veste di padre non erano la stessa, anche se apparentemente occupavano il medesimo spazio. Sarebbe stato di pessimo gusto dar retta a qualcuno che non doveva esserci affatto; sarebbe stato imperdonabile. Ciononostante, si tratteneva nei paraggi e ascoltava.
Una volta gli sentí dire: le torri incappucciate di nubi. «Le torri incappucciate di nubi, i palazzi sfarzosi».
Per Rose fu come se qualcuno le assestasse una manata sul petto, non per farle male, ma per strabiliarla, per toglierle il fiato. Dovette proprio mettersi a correre quella volta, fu costretta a scappare. Sapeva di aver già sentito abbastanza, e poi, se l’avesse sorpresa? Sarebbe stato terribile. Era un po’ come con i rumori in bagno. Flo aveva messo da parte dei soldi per far installare il bagno, ma l’unico vano disponibile per costruirlo era un angolo della cucina. La porta non si chiudeva, le pareti erano di truciolato. Perciò perfino strappare un foglio di carta igienica e cambiare appoggio sull’asse produceva rumori che non sfuggivano a chi intanto, in cucina, lavorava, mangiava o chiacchierava. Si conoscevano bene, anche nelle manifestazioni sonore piú private, non solo quelle dei momenti di furia esplosiva, ma anche nei singhiozzi, i gemiti, le suppliche e le dichiarazioni intime. Ed erano tutti quanti gente assai pudica. Perciò fingevano di non sentire, di non prestare ascolto, e nessuno faceva mai commenti.
La persona che produceva i rumori nel gabinetto non aveva niente a che fare con quella che ne usciva. Abitavano in una zona povera del paese. C’erano Hanratty centro e West Hanratty, con il fiume che scorreva in mezzo. Loro stavano a West Hanratty. La piramide sociale di Hanratty centro vedeva al vertice medici, dentisti e avvocati, per scendere fino a manovali, operai della fonderia e birocciai; quella di West Hanratty, invece, partiva dagli operai e dai manovali per arrivare fino a miserabili famiglie numerose di contrabbandieri occasionali, prostitute, e ladri falliti. Rose pensava alla propria famiglia come a una comunità a cavallo del fiume, senza un preciso luogo di appartenenza, ma non era cosí. Stavano a West Hanratty perché lí era il negozio, e pure loro: all’estrema propaggine dello stradone. Di fronte, c’era la bottega di un fabbro con le assi inchiodate ai vetri sin dall’inizio della guerra, e un edificio che a suo tempo aveva ospitato un altro negozio. L’insegna «Salada Tea» non era mai stata tolta dalla vetrina; restava a far bella mostra di sé, sebbene da un pezzo non vendessero piú tè di nessuna marca là dentro. Rimaneva giusto un pezzetto di marciapiedi, troppo inclinato e sconnesso per poterci schettinare sopra, anche se Rose desiderava tanto un paio di pattini a rotelle e spesso immaginava di sfrecciare agile nei paraggi in un’elegante gonnellina scozzese. C’era un unico lampione, un fiore di latta; dopodiché gli arredi urbani finivano e restavano giusto strade sterrate e pantani, discariche nei cortili e case bislacche. A renderle tali erano gli sforzi messi in atto per cercare di prevenirne la rovina completa. Nei casi in cui non si era neanche fatto quel tentativo, gli edifici risultavano grigi, diroccati e sbilenchi, quasi risucchiati dentro un paesaggio di fossi colmi di sterpaglie, stagni abitati da rane, distese di stiance e di ortiche. Ma perlopiú le case mostravano rattoppi di carta catramata, qualche assicella nuova, tubi della stufa spianati col martello, fogli di lamiera, cartone, addirittura. Tutto ciò accadeva, naturalmente, nei giorni prima della guerra, tempi di quella che sarebbe poi diventata una miseria leggendaria, e di cui Rose avrebbe conservato ricordi in gran parte deprimenti: formicai minacciosi, scalini di legno, e il mondo immerso in una luce torbida, difficile e interessante.
10 ottobre 2013