I 44 giornalisti in carcere in Cina nel 2014 sono il sintomo più evidente del clima sempre più avverso nei confronti dei media nel gigante asiatico
Per il giornalismo e i media in Cina è stato un anno nero. Sono 44, infatti, i giornalisti arrestati nel paese asiatico durante gli ultimi 12 mesi, un numero cresciuto rispetto ai 32 reporter incarcerati nel 2013. A fornire i dati è il Committee to Protect Journalists (Cpj), Ong statunitense che monitora lo stato della libertà dei media nel mondo e i rischi cui chi fa informazione è esposto, specialmente in contesti non democratici.
Il Cpj, in particolare, monitora la situazione in Cina dal 1990 e il 2014, scrive Bob Dietz, responsabile del Cpj Asia Program, è stato l’anno peggiore in termini di giornalisti messi dietro le sbarre. I dodici mesi che si apprestano a concludersi, inoltre, hanno anche visto inasprirsi lo spettro della detenzione dei giornalisti: se prima a essere vittime di misure restrittive erano principalmente giornalisti appartenenti a minoranze etniche (tibetani o uiguri, soprattutto), nel 2014 sono stati incarcerati anche 22 reporter di testate di primo piano, indipendenti o internazionali, compresa Zhang Miao, collaboratrice del tedesco Die Zeit, arrestata in ottobre dopo aver partecipato a un reading di poesia a Pechino a sostegno delle proteste di Hong Kong, proteste che la giornalistaaveva seguito per conto del giornale di Berlino.
Tra gli altri, oltre a Zhang Miao, scrive ancora il Cpj, rimangono in carcere anche Shen Yongping, documentarista autore di One Hundred Years of Constitutionalism; i due giornalisti di stanza a Hong Kong Guo Zhongxiao e Wang Jianman, il secondo dei quali cittadino Usa, entrambi accusati di “pubblicazione illegali” sui loro magazine XinWei Monthly e Mask, e Xu Xiao, editor della rivistaCaixin.
Dietro le sbarre si trova inoltre anche Gao Yu, veterana settantenne del giornalismo cinese, già in carcere per sette anni negli anni ’90, arrestata nuovamente lo scorso aprile – il processo è invece iniziato in novembre – con l’accusa di aver consegnato ad alcuni media stranieri documenti riservati del Partito comunista cinese. Il caso di Gao è doppiamente interessante per la libertà di stampa in Cina: il documento in oggetto sarebbe infatti il white paper noto come “Document. 9″, un testo che Gao avrebbe leakato al di fuori della Cina. Il documento mette nero su bianco sette “pericoli” che l’establishment cinese avverte come più pressanti per la società cinese. Tra questi, anche la nozione di indipendenza dei media.
“Anche le leadership passate hanno pubblicato note in cui il ruolo dei media era un asset dello sviluppo economico, ma allo stesso tempo doveva essere controllato e monitorato, quindi il testo, di per sé, non è una novità nei contenuti. Bisogna però notare che, appena dopo l’insediamento di Xi Jinping, il controllo sui contenuti mediatici ha avuto uno sviluppo più forte e verticale”, commenta Gianluigi Negro, ricercatore dell’Università della Svizzera italiana ed editor assistant del China Media Observatory, raggiunto da Wired.
“L’insediamento di Xi Jinping ha infatti rappresentato una marcia indietro molto forte da questo punto di vista, anticipata per altro dal suo ‘biglietto da visita’, una questione molto discussa in Cina, la censura coatta dell’editoriale del Southern Weekly, una delle testate più liberali della Cina”, continua Negro, “solitamente, infatti, vi era una sorta di negoziazione tra media e censori sulla revisione dei contenuti: i giornalisti sapevamo scrivere tra le righe e i lettori sapevano leggere allo stesso modo. Con Xi Jinping, invece, si era passati alla censura complessiva”.
Gli spazi per il giornalismo cinese e dalla Cina si fanno sempre più stretti: “per i giornalisti, ottenere un visto in Cina è sempre più difficile, come testimoniano due casi importanti: il primo è quellodi Bloomberg che ha pubblicato un report sui fondi di un importante leader cinese e l’allontanamento di una giornalista di Al Jazeera in seguito ad alcuni suoi servizi”, spiega ancora Negro,“questi casi hanno irrigidito molto la gestione del giornalismo in Cina. Ma credo sia stato un boomerang, perché i giornalisti sono stati di conseguenza diretti verso Hong Kong e quando sono scoppiate le manifestazioni nella ex-colonia britannica, è stato un colpo di immagine violento per la Cina, perché i giornalisti che hanno coperto i fatti avevano una prospettiva più consapevole su quanto stesse avvenendo. Il quadro di insieme punta sempre di più al controllo”.
Ma la censura, in Cina, corre anche sul Web. Proprio di questi giorni è la notizia del blocco di Gmail, appena risolto, ultimo esempio in ordine di tempo delle attività censorie online. Sempre nel 2014 si ricorda anche l’oscuramento di Instagram e altri servizi digitali popolari in concomitanza con le manifestazioni di Hong Kong.
“La situazione complessiva è molto fluida, la storia va avanti dal varo del Great Firewall”, commenta ancora Gianluigi Negro, “ma un dato molto significativo è la creazione del Central Internet Security and Information Leading Group per la sicurezza cibernetica, di cui proprio Xi Jinping è ora il capo, lanciando un segnale fortissimo a poca distanza dalle rivelazioni di Snowden”.
Proprio nel precedentemente citato “Document. 9″ si può trovarela chiave di lettura di come come il Partito comunista cinese vede il ruolo dei media, per i quali auspica di riuscire a garantire che il“controllo sulla leadership dei media sia nelle mani di qualcuno che abbia la medesima ideologia del Comitato centrale del partito, sotto la guida del Segretario generale Xi Jinping”.
Un cambiamento di vento radicale è avvenuto in Cina in tempi recenti per quanto riguarda il clima attorno ai media da quando Xi Jinping è diventato Presidente nella primavera del 2013. Secondo il Cpj, gli spazi di indipendenza per l’informazione sotto il nuovo governo si sono nuovamente orientati verso un approccio più autoritario che preclude al giornalismo e ai media la possibilità di agire come watchdog del potere e della politica.
La recente sprezzante risposta del leader cinese, che attribuiva tutte le colpe della chiusura contro i media ai giornalisti stessi, colpevoli di fare, appunto, il giornalismo, a una domanda del New York Times sulla questione visti per i giornalisti stranieri, da questo punto di vista, rimane purtroppo emblematica.
Fonte: Wired
1 gennaio 2015