Come siamo cambiate? Risponde l’Istat che ci ha monitorato

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di Chiara Meta

Dopo l’ultima indagine ad ampio spettro risalente al 2004, l’Istat pubblica una nuova ricerca sulla vita delle donne nel nostro Paese dal 2004 al 2014. L’analisi disaggregata dei dati che questa indagine decennale condotta dall’Istat ci fornisce, ci fa leggere gli aspetti in chiaroscuro del lungo cammino delle donne verso l’emancipazione e la libertà dal bisogno.

Le fasce d’età, così come la collocazione geografica, sono elementi fondamentali per leggere le dinamiche in atto, ovvero i notevoli avanzamenti – concentrati prevalentemente al centro nord – in termini di consapevolezza e capacità di autodeterminazione femminile, e le sacche di resistenza al mutamento, soprattutto nel mezzogiorno. Le donne più giovani (24-36 anni), concentrate nel centro nord, sono quelle che emergono: si laureano prima e meglio dei coetanei maschi. Altre, invece, migliorano la loro condizione. Le quarantenni e cinquantenni con titoli di studio elevati hanno visto in questo decennio cominciare ad infrangersi il tetto di cristallo e hanno avuto accesso a ruoli apicali, grazie anche a una normativa che le ha sostenute. Le donne anziane, poi, hanno migliorato la qualità della loro vita: le ultrasessantenni non solo continuano ad avere una vita media più lunga dei coetanei maschi ma sono anche più capaci di inventarsi un nuovo progetto di vita in tarda età.

Samantha Cristoforetti

Samantha Cristoforetti

A fronte di questi cambiamenti positivi permangono zone d’ombra significative che collocano il nostro paese nella tra i paesi europei che non facilitano l’accesso delle donne al mondo del lavoro. Il lavoro infatti rimane la questione fondamentalmente irrisolta della vera emancipazione femminile. La maternità continua a essere considerata il discrimine nell’accesso e nella permanenza nel mercato del lavoro. Le donne in età feconda (34-45 anni), infatti, sono le più penalizzate nel decennio appena trascorso. Quelle che esibiscono un profilo professionale più qualificato e caratterizzante hanno maggiormente resistito alla crisi economica del 2007 anche se spesso collocandosi in posizioni precarie e intermittenti. Quelle invece che esibivano un profilo formativo meno qualificato sono state collocate a margine del mercato del lavoro. In questi anni è aumentato il part-time involontario che piuttosto che rappresentare una scelta della lavoratrice o una strategia dell’azienda volta alla conciliazione, ha rappresentato un modo per segregare ancora di più il lavoro femminile confinandolo in una doppia gabbia: lavoro povero (poco retribuito) e precario (contratti a termine). Su queste fasce di donne, concentrate soprattutto nel centro sud,  si sono scaricati maggiormente i costi della crisi: espulse dal processo produttivo in coincidenza della maternità hanno sostenuto il costo dei tagli ai servizi e al welfare accollandosi, gratuitamente, i compiti di cura.

Nonostante, infatti, l’indagine riveli una crescita di consapevolezza femminile, una maggiore reciprocità tra maschi e femmine nella divisione dei compiti e un progressivo superamento degli stereotipi di genere, tutto questo si manifesta tra le più giovani e soprattutto all’interno di quelle coppie che esibiscono livelli di istruzione superiore. Per molte donne, soprattutto nel centro sud, il decennio trascorso non solo non ha segnato un avanzamento ma addirittura un arretramento sul piano dei diritti e delle opportunità.

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Punta dell’iceberg di questo “effetto elastico” – di avanzamenti e arretramenti – è il fenomeno della violenza maschile contro le donne. Qui l’indagine Istat si incrocia con un’altra ricerca sempre condotta dall’Istat e pubblicata nel maggio 2015. Ciò che emerge con forza è proprio l’ambivalenza di questo mutamento: cresce soprattutto tra le più giovani la capacità di riconoscere i segnali di violenza, ma crescono anche le violenze più efferate così come i femminicidi che attraversano in modo trasversale tutte le classi sociali. Ciò testimonia un fatto importante: agli avanzamenti da parte delle donne in termini di capacità di autodeterminazione e di consapevolezza personale non è corrisposta una capacità degli uomini di gestire il mutamento in atto e di elaborare un nuovo modello di relazioni adeguato. Di fronte a una libertà rivendicata ed esibita da parte delle donne, sono proprio questi che spesso reagiscono in modo violento perpetuando, in modo coattivo, modelli relazionali ancestrali legati a una società di tipo patriarcale. Tale modello, che pensavamo ormai superato, è ancora fortemente introiettato ed emerge nel gesto violento del singolo così come si ripropone negli assetti familiari dei contesti immigrati. Qui, il difficile percorso di integrazione delle donne, anche se accompagnato dalla tendenza positiva, soprattutto tra le più giovani, a integrarsi nel nuovo tessuto sociale e lavorativo, fa coppia con il permanere di modelli familiari giocati su dinamiche di subordinazione e negazione delle libertà femminili.

Siamo dunque di fronte a un passaggio storico complesso e contraddittorio, i detriti del passato, in termini di permanenza di stereotipi di genere e modelli comportamentali misogini, riemergono a fasi alterne bloccando spesso il cambiamento. Tuttavia, il segnale positivo emerge con forza, la lunga marcia delle donne verso la parità prosegue.

Fonte: Ingenere

29 gennaio 2016

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