chiosa. L’indagine “Check–Up delle imprese italiane” dell’Istat mostra un quadro complessivo delle imprese, che sono un po’ lo specchio di una Nazione che ha lo sguardo ancora troppo volto al passato. Infatti, Le strategie adottate dalle imprese negli ultimi anni sono soprattutto di tipo difensivo: il 70,5 per cento di esse, spiega l’Istat, ha dichiarato che il mantenimento della propria quota di mercato è la strategia prevalente. Il dato più curioso benchè prevedibile in un paese come il nostro è che i titolari di microimprese a conduzione familiare sparse sul territorio nazionale sono in stragrande maggioranza uomini: ben il 78,5 del totale. Una bella folla considerato che le microimprese sono, secondo i dati pubblicati dalla Banca d’Italia. ben oltre le 400 mila. Pertanto si può affermare che sono i maschi che governano le imprese in Italia? No, non è così. La legge che impone la presenza di donne nei cda e collegi sindacali delle società quotate e partecipate pubbliche ha finalmente fatto crescere la rappresentanza femminile nei board. Il rapporto “Consob On Corporate Governance of Italian listed Companies” uscito a novembre e che abbiamo pubblicato, mostra che oggi il 17 per cento dei posti di consigliere è ricoperto da donne (a fine 2011 erano il 7,4 per cento) e in 198 imprese (135 a fine 2011) almeno una donna siede nel consiglio di amministrazione. Come si sottolinea nel rapporto, la diversità di genere è diventata una realtà diffusa: quattro consigli su cinque hanno entrambi i generi rappresentati.Si tratta di una vera rivoluzione per le società italiane. La presenza di donne nei consigli di amministrazione delle società quotate è sempre stata molto bassa, ben al di sotto del 7 per cento fino al 2011, circa un terzo di quella di paesi come la Finlandia (27 per cento), la Svezia (25 per cento) e la Francia (22 per cento).Pertanto, esiste un forte contrasto tra la crescita della rappresentanza femminile nei board e la situazione statica dell’occupazione femminile italiana, ferma ormai da anni al 47 per cento, ai livelli più bassi d’Europa.Insomma c’è ancora molto da fare per poter raggiungere un livello adeguato alla media europea.ac
Quasi due terzi delle imprese italiane sono “conservatrici” e hanno poca possibilità di competere in un mercato complesso e globalizzato come quello attuale. A dirlo è l’Istat, nella sua indagine “Check–Up delle imprese italiane”. Si sta parlando di 670mila società, con un’occupazione di quasi 6 milioni di addetti. Sono mediamente piccole (ma ce ne sono anche tra le medie e le grandi), hanno un profilo strategico semplice (poche strategie e per lo più difensive) e una bassa propensione all’innovazione (innova circa il 20% delle imprese). Guardano soprattutto ai mercati locali, perché in due terzi dei casi non escono dalla provincia. Sono per lo più imprese meridionali e, in misura inferiore, del Centro.
L’istituto di statistica per la prima volta ha individuato cinque tipi di società, dividendole per grado di competitività. Dopo il “corpaccione” delle imprese conservatrici, ci sono quelle chiamate “dinamiche tascabili” (22%), più innovative ma troppo legate al territorio, e quindi pronte a cadere sotto i colpi della crisi attuale di domanda. Ci sono poi le “aperte” e le “innovative”, ciascuna delle quali rappresenta circa il 7% delle aziende italiane. Le prime sono imprese industriali capaci di esportare, le seconde società orientate al mercato domestico che sanno avere dei prezzi e dei prodotti competitivi. Al vertice della piramide ci sono le “internazionalizzate spinte”: sono i gruppi industriali, per lo più nel Nord-Ovest, in nove casi su dieci aperte all’estero, capaci di innovare, attivare relazioni e diversificare i prodotti. Peccato che siano solo il 2,6 per cento del totale.
L’indagine ha fatto un quadro complessivo delle imprese, che sono un po’ lo specchio di un Paese che ha lo sguardo ancora troppo volto al passato.
Ecco alcuni passaggi della descrizione che ne fa l’Istituto di statistica. La connotazione familiare delle imprese, ad esempio, coinvolge l’intero sistema: il socio principale è una persona fisica nel 94,8% delle imprese che impiegano 3-9 addetti (microimprese), nell’83,9% delle piccole imprese (10-49 addetti), nel 54,2% delle medie (50-249 addetti) e permane elevata (25,3%) anche nelle grandi (250 addetti e oltre).
I titolari di microimprese a conduzione familiare sono in stragrande maggioranza uomini (78,5%).
Il titolo di studio prevalente tra gli imprenditori è il diploma di scuola media superiore (44%) seguito dalla licenza media (34%); la quota di persone con studi universitari (laurea e post laurea, 14,8%) è superiore solo quella dei meno istruiti (con nessun titolo di studio o licenza elementare, 7,2%).
Il 46,3% degli imprenditori ha avuto come precedente esperienza lavorativa il lavoro dipendente, il 36,6% il lavoro autonomo.
La presenza di una conduzione diretta da parte di membri della famiglia proprietaria e/o controllante è diffusa fino alle imprese di medie dimensioni (circa 60% di queste). La scelta di affidarsi a dei manager è influenzata dalla dimensione aziendale e passa da un’incidenza del 3,2% nelle micro al 10,1% nelle piccole, al 22,4% nelle medie fino ad arrivare a circa il 40% in quelle con almeno 250 addetti.
Un terzo delle microimprese utilizza un sito web o pagine internet. Il commercio elettronico viene effettuato dal 25,1% delle microimprese: il 23,4% acquista sul web, ma l’opportunità di vendere on line è sfruttata soltanto dal 5,1 per cento.
Le strategie adottate dalle imprese negli ultimi anni sono soprattutto di tipo difensivo: il 70,5% delle imprese, spiega l’Istat, ha dichiarato che il mantenimento della propria quota di mercato è la strategia prevalente. Si tratta dell’orientamento principale per le imprese di tutte le classi dimensionali e tutti i macrosettori. A questo orientamento, tuttavia, si affiancano o si sostituiscono altre strategie più complesse: ampliare la gamma dei prodotti e servizi offerti (41,1% dei casi), accedere a nuovi mercati (22,2%) o ad attivare/incrementare collaborazioni con altre imprese (11,7%). Circa il 6% delle imprese deve ridimensionare la propria attività.
La ricerca di una maggiore competitività è, secondo le dichiarazioni delle imprese, frenata da ostacoli di diversa natura: mancanza di risorse finanziarie (40,4%), scarsità o mancanza di domanda (36,8%), oneri amministrativi e burocratici (34,5%), contesto socio-ambientale sfavorevole (23,2%). Viceversa, le imprese percepiscono come relativamente meno gravi la carenza di infrastrutture, la mancanza di risorse qualificate e la difficoltà nel reperire personale o fornitori.
L’analisi multivariata condotta su un ampio ventaglio di informazioni raccolte dall’indagine ha permesso di identificare cinque tipologie di imprese. Ecco come le descrive l’Istat:
– le “conservatrici”
È il gruppo più numeroso con quasi il 64% delle imprese (670mila unità, con un’occupazione di quasi 6 milioni di addetti), con una dimensione media di 8,9 addetti per impresa. Relativamente più presenti nei servizi diversi dal commercio e delle costruzioni. Hanno un profilo strategico semplice (poche strategie e per lo più difensive), con bassa propensione all’innovazione (innova circa il 20% delle imprese) e sono rivolte soprattutto ai mercati locali (circa il 67%). Forte la presenza delle imprese meridionali e, in misura inferiore del Centro. Dal punto di vista dimensionale, sono presenti i due terzi delle microimprese, poco più della metà delle piccole imprese, il 40% delle medie imprese e il 30% delle grandi;
– le “dinamiche tascabili”:
comprende poco meno del 20% delle imprese (circa 205mila unità, con 2,6 milioni di addetti), con un profilo settoriale simile a quello medio e una dimensione di poco inferiore ai 13 addetti per impresa. Hanno un profilo strategico articolato che punta molto su diversificazione produttiva e nuovi prodotti, esprimono un’elevata propensione innovativa (52%), ma sono ancora prevalentemente legate al mercato locale (55,8%). L’incidenza del raggruppamento è poco variabile tra le diverse classi dimensionali. In termini assoluti, il gruppo comprende 160mila microimprese e 37mila piccole imprese;
– le “aperte”:
conta poco più del 7% delle imprese con 75mila unità e 1,7 milioni di addetti, con una dimensione media di 22,9 addetti per impresa. Il gruppo è caratterizzato da una presenza piuttosto elevata di imprese industriali (il 42,7%), da un’elevata internazionalizzazione (quasi il 70% opera sul mercato estero), dall’apertura verso nuovi mercati (circa una su due) e dalla capacità di attivare relazioni con altre imprese (100%), e da una forte propensione innovativa (59,1%). In questo raggruppamento sono molto presenti imprese del Nord-ovest (il 38,1%) e del Nord-est (28,5%). Le “aperte” sono solo il 5% delle microimprese (comunque presenti nel raggruppamento con circa 50mila unità), il 12% tra le piccole imprese (circa 20mila unità), il 15% tra le medie e il 17% tra le grandi;
– le “innovative”:
conta 74mila imprese (7%) che impiegano 1,5 milioni di addetti e mostrano una dimensione media di 19,8 addetti per impresa. Questo gruppo presenta un profilo settoriale abbastanza simile a quello medio. Dominano comportamenti innovativi, e forte propensione alle relazioni di collaborazione. Queste imprese hanno un forte orientamento al mercato domestico, alla competitività di prezzo e alla qualità del prodotto. Le microimprese sono presenti con 49mila unità e le piccole con circa 20mila unità;
– le “internazionalizzate spinte”:
Sono solo il 2,6% delle imprese (27mila unità, che impiegano 1,1 milioni di addetti), per una dimensione media di 39,5 addetti. Rispetto agli altri raggruppamenti, è massima l’incidenza delle imprese appartenenti a gruppi. Quasi una su due fa parte dell’industria, Molto sottorappresentati i servizi diversi dal commercio. L’apertura verso l’estero è massima (coinvolge oltre il 90% delle imprese), così come la capacità di attivare relazioni (100%). Molto elevata anche la propensione ad innovare (68,9%). Flessibilità produttiva e diversificazione i più rilevanti fattori competitivi. Le strategie di queste imprese puntano maggiormente all’aumento della gamma di prodotti e all’accesso a nuovi mercati. Quasi una su due è residente nel Nord-ovest e solo il 9% è attivo nel Mezzogiorno. In questo raggruppamento si riconoscono l’1,9% delle microimprese, il 5% delle piccole, l’11% delle medie ed il 15% delle grandi unità.
29 novembre 2013