Le nuove norme entreranno probabilmente in vigore il primo marzo: cosa sembra essere più conveniente e per chi
di Redazione
Il Corriere della Sera ha scritto che il governo ha inviato al Consiglio di Stato il decreto del Presidente del consiglio (DPCM) che riguarda il TFR in busta paga. Il parere del Consiglio di Stato è l’ultimo passo prima dell’entrata in vigore di un decreto ministeriale – e il DPCM è un tipo di decreto ministeriale: la norma, che è contenuta nella finanziaria 2015 ma non ancora attuata, potrà quindi entrare in vigore come previsto il primo marzo 2015, nonostante i timori di rinvii che c’erano fino a pochi giorni fa. Ecco come funziona e a chi conviene.
Che cos’è il TFR?
Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR), quello che comunemente viene definita liquidazione o buonuscita, è una somma di denaro che viene data al lavoratore dipendente nel momento in cui il rapporto di lavoro finisce, per qualsiasi motivo. L’importo si basa su un accantonamento pari al 7,41 per cento della retribuzione annuale. La somma accantonata nel TFR viene rivalutata sulla base del tasso fisso dell’1,5 per cento, più una parte variabile legata all’indice ISTAT dei prezzi al consumo.
Dal gennaio del 2007 i lavoratori dipendenti del settore privato possono scegliere se mantenere il TFR nella forma attuale (dunque come liquidazione) oppure se versarlo in un fondo pensione. Alla fine del rapporto lavorativo, il TFR è corrisposto in un’unica soluzione o in due o tre rate, a seconda dell’importo. Dopo almeno otto anni di lavoro presso lo stesso datore, i lavoratori possono chiedere, solo per una volta, un’anticipazione del TFR per un importo che può arrivare fino al 70 per cento del totale. Esiste infine un Fondo di Garanzia nazionale al quale possono rivolgersi i lavoratori di imprese in stato di insolvenza o dichiarate fallite.
Come funziona?
Dal primo marzo, qualunque lavoratore dipendente del settore privato assunto da almeno sei mesi potrà richiedere la “quota maturanda del Trattamento di fine rapporto come parte Integrativa della Retribuzione”, o QUIR, cioè il nome tecnico del “TFR in busta paga”. Visto che il DPCM non è stato ancora pubblicato, il meccanismo di funzionamento non è chiarissimo, ma sembra che, in media, un lavoratore che guadagna 1.400 euro al mese potrebbe ottenere in busta paga un aumento di 100 euro. La cifra esatta dipende da molti fattori tra cui, ovviamente, l’anzianità che influenza quanto il lavoratore ha già versato per il suo TFR.
Compilato il modulo QUIR, il lavoratore comincerà a ricevere il suo TFR in busta paga entro un mese per le aziende con più di 50 dipendenti ed entro tre mesi per quelle con meno di 50 dipendenti. Questa differenza serve a permettere soprattutto alle piccole aziende, che spesso utilizzano il TFR dei propri dipendenti come liquidità, di ottenere dei prestiti dalle banche convenzionate con lo stato con cui coprire la perdita delle quote di TFR. La misura è definita “sperimentale” e per ora sarà in vigore fino al 30 giugno 2018. Chi farà richiesta per il TFR in busta paga non potrà cambiare idea fino a quella data.
Quali sono i problemi?
Il TFR lasciato in azienda o depositato in un fondo pensione (cioè le due scelte che era possibile fare prima della QUIR) godeva di una tassazione vantaggiosa, mentre il TFR in busta paga sarà tassato in maniera ordinaria. Sarà conteggiato anche per alcune specifiche detrazioni (e quindi chi lo sceglie potrebbe trovarsi a perdere sconti fiscali), ma non per la concessione del bonus da ottanta euro. Insomma, a quanto pare non si tratterà di una scelta facile da fare e sarà necessario fare parecchi conti per capire cosa è più conveniente. In ogni caso, secondo i calcoli attuali, il TFR in busta paga dovrebbe essere piuttosto sconveniente per tutti coloro che hanno redditi superiori ai 28 mila euro lordi l’anno. La scelta, quindi, è tra ricevere meno denaro, ma subito, o attendere più a lungo e riceverne di più.
10 febbraio 2015