Difficoltà di accesso, stipendi più bassi, politiche di conciliazione inesistenti. Se le lavoratrici sono discriminate, quelle disabili lo sono due volte
di Laura Pasotti
«La laurea, i progetti di vita e il lavoro, anche se precario. Poi un giorno, cominci a sentire la faccia strana, la schiena strana, la gamba strana. E non passa. E peggiora. Ma hai lottato così tanto per conquistare il lavoro e non puoi fallire. E allora ti convinci che è solo stress e rimandi la visita dal medico. Fino a quando lavorare diventa sempre più difficile, gli oggetti ti scivolano di mano, le gambe si bloccano. E non puoi più stare zitta. Hai un problema. Devi andare dal medico. Ricovero, cortisone e la diagnosi di sclerosi multipla. E la tua vita cambia per sempre». Laura si racconta così sul blog giovanioltrelasm.it, dove ammette anche alcune sorprese ‘in meglio’, come il fatto di scoprire che il suo compagno l’accetta per ciò che è, l’aver fatto chiarezza sui motivi di tutte quelle visite al pronto soccorso e il rendersi conto che progetti, scadenze e lavoro non sono tutto nella vita.
«La vita è altro. La diagnosi ti ha liberata e sei felice perché tutto sommato stai bene, anche se gli altri spesso non ti capiscono, anche sei hai subito delle discriminazioni, lo spettro del precariato non ti abbandona e al lavoro devi nascondere la tua situazione».
Laura è una delle lavoratrici che ha scelto di non comunicare in azienda la diagnosi di sclerosi multipla. E non è la sola. «La stragrande maggioranza delle donne sceglie di non dirlo», racconta Giulia Flamingo, consulente legale dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla. È quanto emerge dalle richieste che arrivano al Numero Verde di AISM. «Chi ci chiama ci chiede se c’è l’obbligo di dirlo e quali sono le conseguenze nel caso in cui il datore di lavoro lo dovesse scoprire — continua Flamingo — Spesso le lavoratrici sono molto sincere nel riconoscere i loro limiti, ma temono che le aziende non siano preparate e spesso è davvero così: confondono i concetti, fanno un gran minestrone sulla pelle di queste persone». Insomma, il problema è l’ignoranza dell’interlocutore sui diritti dei disabili, sulle possibilità di facilitare il loro lavoro con pochi accorgimenti, sul fatto che «non è tanto una questione economica, di pensione o invalidità, quanto di permessi, congedi, possibilità di andare alle visite senza decurtare le ferie che servono poi per gli impegni familiari. Insomma, sta tutto nel diritto a lavorare serenamente», afferma Flamingo.
Romilda è di Taranto, ha 26 anni e la diagnosi di sclerosi multipla l’ha ricevuta quando stava facendo il tirocinio come infermiera. Racconta:
«Non poter svolgere le mie mansioni al completo, mi faceva sentire un peso per me stessa e per i colleghi»
Ma ha scelto la sua strada e ha cercato una via di uscita. «C’era chi diceva che era impossibile ma io credo che ci sia sempre un modo per ignorare i colleghi che ti guardano e abbassano la voce quando gli passi accanto, quando il tuo datore di lavoro non capisce le tue esigenze o il lavoro non lo trovi — continua — Certo, è un gran casino. Ma sta a noi capire i nostri limiti e trasformarli in arte”. Poi però i limiti sono diventati più stringenti. «Non riuscivo più ad andare da una stanza all’altra con facilità, non riuscivo più a muovere bene un paziente per portare un po’ di sollievo, per non parlare della stanchezza a fine giornata e ho iniziato a pensare di dover accettare che la mia vita era cambiata».
Oggi Romilda cammina con l’aiuto di un bastone e non è più in grado di lavorare in reparto o nell’assistenza a domicilio. Ha cambiato il suo progetto di vita: grazie all’esperienza del blog Giovanioltrelasm.it ha scoperto la passione per la scrittura, si è iscritta a Lettere a Lecce, ‘dove l’università non ha barriere architettoniche’, e sogna di poter scrivere e insegnare.
«Le donne con sclerosi multipla sono portate a ridurre il lavoro di 10–12 ore alla settimana, è quanto emerge dalle chiamate al numero verde e dalle segnalazioni agli sportelli — dice Paolo Bandiera, direttore Affari generali AISM — Chiamate che non sono solo richieste di informazioni, ma di aiuto. La prima cosa che facciamo, di solito, è una lettera all’azienda in cui spieghiamo che la sclerosi multipla non impedisce il lavoro e che, a volte, basta un accomodamento ragionevole, ad esempio non mettere una persona in cassa dove serve un’attenzione particolare o scegliere una postazione di lavoro vicina ai servizi».
Anna (il nome è di fantasia) ha 65 anni, un marito, due figlie.
Vive a Rieti. È medico, otorino, e la sua vita è sempre stata quella dello ‘specialista normale’, visite, sostituzioni, viaggi, congressi. Poi nel 1992 è arrivata la diagnosi di sclerosi multipla. «Avevo un disturbo alla gamba non facilmente individuabile e mi consigliarono di andare dal neurologo». La malattia è iniziata piano, ma poi è peggiorata, ci sono state ricadute. E inevitabilmente sono arrivati gli effetti sul lavoro.
«Riesco a essere autonoma solo con un appoggio, per pochi passi e distanze brevi». Nonostante questo ha continuato a lavorare, pur con tutta una serie di difficoltà legate alla mobilità, «la gente parcheggia dove non dovrebbe, ad esempio davanti alla rampa di accesso per le carrozzine».
Ha anche pensato di andare in pensione, «gli anni ce li ho e la mattina è già difficile alzarmi dal letto, ma mi dispiace perché andare a lavorare è un modo per non chiudermi dentro casa, un modo per uscire, parlare». E allora va avanti, anche attraverso qualche escamotage: ad esempio per andare al lavoro fa il giro del palazzo ed entra dal garage, dove c’è una rampa. Per il disagio psicologico, invece, si può fare poco. E l’umore influisce notevolmente sulla sclerosi multipla. «Le donne disabili vivono una doppia discriminazione in quanto donne e in quanto disabili», spiega Daniela Bucci della FISH (per cui si occupa del sito www.condicio.it), autrice insieme a Zaira Bassetti e Marica Regnicoli di un’indagine sul percorso lavorativo delle donne con disabilità nel Lazio che raccoglie 50 storie, tra cui quella di Anna.
«Come donne si condivide con le altre donne la mancanza di pari opportunità che contraddistingue la nostra società, come persone con disabilità si condivide l’esclusione sociale, la discriminazione e la difficoltà di partecipazione» , afferma.
Tuttavia essere donne disabili, secondo Bucci, non rappresenta solo una somma di discriminazioni ma una moltiplicazione. «Le donne disabili non godono di pari opportunità non solo rispetto alle altre donne ma anche nei confronti degli uomini disabili — continua — È come se, insomma, la dimensione della disabilità coprisse tutte le altre, tra cui quella di genere». Una discriminazione multipla evidenziata anche dalla Convenzione ONU sui diritti dell persone con diasbilità, in cui c’è un articolo ad hoc, il 6, dedicato alle donne disabili.
Laura, Anna e Romilda sono alcune delle donne che, dopo la diagnosi di sclerosi multipla, hanno dovuto fare i conti con una serie di difficoltà legate al proprio lavoro, in conseguenza all’affermazione dei sintomi e alla manifestazione della malattia. Secondo i dati di AISM e CENSIS riferiti al 2013, più di 7 persone con sclerosi multipla su 10 hanno avuto problemi di questo tipo (un dato che raggiunge quasi il 90% tra chi ha EDSS maggiore o uguale a 7), l’89,5% delle persone con sclerosi multipla ha avuto almeno un’occupazione stabile nella sua vita ma più della metà ha dovuto abbandonare precocemente il proprio lavoro, il 32% ha ridotto il numero di ore lavorate a causa della patologia (in media di 12 ore alla settimana). E le donne, con il progredire dell’età, hanno maggiori difficoltà rispetto agli uomini a mantenere il proprio posto di lavoro. Una delle cause è la difficoltà di conciliare il carico di lavoro e gli impegni familiari.
Le storie di Anna, Laura, Romilda e Valentina ci dicono che «da parte femminile, è più forte la volontà di rimanere al lavoro rispetto a quella di accettare incentivi per andare, ad esempio, in pensione anticipata»
«Tutelare le donne e il lavoro delle donne». Lo ha detto Papa Francesco, lo scorso autunno, in un’udienza in piazza San Pietro con dipendenti e dirigenti dell’Inps. E ha sottolineato la necessità di «tutelare il loro diritto a un lavoro pienamente ri- conosciuto e la loro vocazione alla maternità e alla famiglia».
I dati sull’occupazione non sono però molto incoraggianti. Nel terzo trimestre del 2015 il tasso di occupazione femminile in Italia è fermo al 47%, quello maschile raggiunge il 66,6%. Se guardiamo i dati sulle lavoratrici disabili (aggiornati al 2013) le percentuali si abbassano notevolmente: le donne che hanno dichiarato di essere occupate sono il 2,3% contro il 6,3% degli uomini. A questo si aggiunge il fatto che, in media, le donne guadagnano il 20% in meno rispetto ai colleghi uomini, che solo il 18% dei bambini tra 0 e 3 anni frequenta un nido pubblico con la conseguenza che il 50% delle donne è costretta a lasciare il lavoro non appena nasce il primo figlio, che spesso l’annuncio di una gravidanza è seguito dal licenziamento (è capitato a 800 mila donne) e che in 1 famiglia su 4 in cui è presente una persona da assistere vi è una donna, giovane, che ha rinunciato al lavoro, interrompendolo, riducendo l’impegno o smettendo di cercarlo.
«Le donne, e specialmente quelle con disabilità, sono svantaggiate nell’accesso e nel mantenimento del lavoro — dice Bandiera — In particolare, nella fascia di età successiva a matrimonio e maternità diventa difficile mantenere l’impegno di lavoro e la cura di sé e della famiglia. Per questo come associazione abbiamo pensato di spingere sul part-time». Certo, ridurre l’orario di lavoro non è la soluzione, perché comporta anche una decurtazione dello stipendio, ma si registra comunque un aumento delle richieste, di cui il 70% arriva da lavoratrici. «Ciò significa che il vero tema è la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro», afferma Bandiera. E in questo le donne con sclerosi multipla, e disabili in generale, vivono le stesse difficoltà di tutte le altre. «Il problema però è che non c’è niente di particolarmente mirato per le donne disabili — spiega Daniela Bucci — mentre servirebbero politiche di conciliazione che rispondano alle esigenze specifiche delle donne con disabilità».
«Non possiamo farti lavorare perché la struttura non è adeguata alle tue esigenze». È la scusa che si è sentita ripetere più spesso Valentina, 30enne di Chioggia con la tetraparesi spastica da parto. «Dopo il liceo avrei voluto iscrivermi all’università ma la lontananza e le difficoltà di spostamento non me l’hanno permesso», racconta. È iniziata così la non facile ricerca di un impiego. Il primo passo è stato rivolgersi all’Ufficio inserimento lavorativo per le persone disabili. Il posto giusto, penserebbe qualcuno. Eppure anche in questo caso Valentina ha ottenuto un rifiuto, «loro si occupano soprattutto di avviare al lavoro le persone con disabilità psichiche e a me hanno detto che avevo troppe competenze». A 23 anni il primo impiego, in una società di servizi territoriali. Ma dopo un anno Valentina è stata lasciata a casa per problemi di bilancio, «anche se poi hanno ricominciato ad assumere, persone non disabili». L’occasione di un lavoro ‘più o meno stabile’ è arrivata con un tirocinio all’Asl, 20 ore alla settimana per 140 euro al mese. «Mi occupavo di cambio medico, esenzioni ticket e assistenza sanitaria agli stranieri. L’ho fatto per 4 anni». Da tre anni Valentina è stata assunta dalla cooperativa che ha in appalto i servizi amministrativi della Asl, «ma è sempre una lotta». Lo stipendio che riceve non le permette di vivere da sola, «avrei bisogno di pagare una persona che mi assiste e lavorerei solo per quello, quindi abito ancora con i miei genitori», dice. Valentina è iscritta alla sezione AISM di Chioggia e collabora al Gruppo Donne UILDM «scrivendo articoli per il sito e gestendo la pagina Facebook — racconta — Mi piace perché mi permette di confrontarmi con altre donne che vivono i miei stessi problemi». Attivo dal 1998, il Gruppo ha come obiettivo «raggiungere le pari opportunità per le donne disabili, attraverso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti»: sul sito si trova un’ampia documentazione sulla disabilità e, in particolare, sulle donne.
Le storie di Anna, Laura, Romilda e Valentina ci dicono che «da parte femminile, è più forte la volontà di rimanere al lavoro rispetto a quella di accettare incentivi per andare, ad esempio, in pensione anticipata», dice Flamingo. Ma serve un nuovo approccio culturale che consenta di conciliare le loro esigenze con quelle lavorative. «Un nuovo approccio che deve coinvolgere gli uffici di collocamento, i datori di lavoro e le lavoratrici stesse — precisa Bandiera — Le modifiche alla Legge 68/1999 contenute in uno dei decreti attuativi del Job’s Act vanno in questa direzione: maggiore personalizzazione degli interventi, accompagnamento delle persone nel loro progetto di vita, più competenze agli uffici di collocamento per studiare, favorire e applicare le politiche di conciliazione. Ma per farlo servono risorse, per questo insistiamo perché siano previsti sgravi contributivi per le aziende».
Fonte: Storie di donne al lavoro. Testo di Laura Pasotti
Inchiesta pubblicata su SM Italia 1/2016.
24 febbraio 2016