Cambierà nome, sarà composto da circa la metà dei membri attuali e manterrà solo alcune competenze
Il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge costituzionale (di cui una sintesi messa insieme dal governo si trova qui) volto a superare il bicameralismo perfetto, ridurre il numero dei parlamentari, sopprimere il CNEL e rivedere il Titolo V della parte seconda della Costituzione.
Il disegno di legge costituzionale varato dal governo riprende un’idea circolata più volte negli ultimi vent’anni, sia nel centrodestra che nel centrosinistra, cioè rendere il Senato una “assemblea delle autonomie” o “Senato delle regioni”, che abbia competenze legislative limitate al governo dei territori e rappresenti una sorta di elemento di raccordo fra lo Stato e gli enti locali. Secondo quanto ha detto Renzi, i punti salienti del “nuovo Senato” sono quattro: i senatori non potranno votare la fiducia né approvare leggi (spetterà alla sola Camera), non riceveranno indennità, non potranno approvare il bilancio e – soprattutto – non saranno eletti direttamente dai cittadini.
Nella riforma proposta dal governo, il Senato cambierà nome – si chiamerà “Senato delle autonomie” – e sarà composto da 148 membri: i presidenti delle giunte regionali e delle province di Trento e Bolzano, due consiglieri regionali per ogni regione (eletti dal rispettivo consiglio regionale) e due sindaci per ogni regione (eletti da un’assemblea dei sindaci delle regioni). I componenti del Senato non saranno quindi presenti in numero proporzionale agli abitanti delle regioni ma saranno in numero pari per ogni regione (ma Renzi ha detto che più avanti si ragionerà se rendere questo sistema proporzionale, in base agli abitanti di ciascuna regione): per ora, un po’ come avviene al Senato degli Stati Uniti, che prevede due membri per ogni stato, dal più piccolo al più grande. Anche gli ex presidenti della Repubblica e i senatori a vita andranno a fare parte del nuovo Senato, così come i sindaci delle città capoluogo di regione.
La Camera, per legiferare, non avrà quindi più bisogno dell’approvazione del Senato. Quest’ultimo potrà solo votare delle modifiche ai vari disegni di leggi, che dovranno però essere ratificate dalla Camera (nel caso, inoltre, per approvare una modifica diversa da una suggerita dal Senato sarà necessario un voto a maggioranza assoluta). Gli ambiti legislativi del Senato rimarranno comunque quelli sul governo del territorio e sull’ordinamento e le funzioni dei comuni e delle regioni. La nuova assemblea potrà inoltre esprimere un parere riguardo un disegno di legge oppure richiedere alla Camera di esaminarne uno. Le riforme costituzionali, poi, continueranno a dover essere approvate sia dalla Camera sia dal Senato.
Per quanto riguarda il Titolo V della Costituzione, il disegno di legge prevede un riordino generale delle competenze fra Stato e Regioni, di modo da evitare conflitti di competenze e distinguere fra competenze “esclusive” dello Stato e “residuali” delle regioni: allo Stato, ricorda il governo, rimarranno le competenze esclusive su economia, esportazioni, università e pubblica amministrazione.
L’iter di approvazione di una riforma costituzionale come la riforma del Senato è piuttosto lungo. Per prima cosa serve che la legge di revisione sia approvata una prima volta da entrambi i rami del Parlamento con una maggioranza relativa: basta cioè che i “sì” superino i “no”. Dopo la prima votazione in entrambe le camere, è necessaria una cosiddetta “pausa di riflessione”: dopo almeno tre mesi, si torna a votare lo stesso testo, ma questa volta la maggioranza con cui deve essere approvato è assoluta (la metà più uno dei seggi, insomma). A questo punto si aprono due strade. Se la maggioranza che ha approvato la legge di revisione costituzionale è dei due terzi sia alla Camera che al Senato, allora il percorso si conclude: il presidente della Repubblica promulga la legge e la modifica entra in vigore alla data prevista. In questo caso, l’iter si è svolto interamente all’interno del parlamento ed è la strada che richiede meno tempo. In teoria, Partito Democratico, Nuovo Centrodestra, Forza Italia e i due gruppi in cui si è divisa Scelta Civica hanno i numeri per approvare una riforma costituzionale con la maggioranza dei due terzi: alla Camera, i cinque partiti hanno in totale 435 deputati, più dei 420 (su 630) necessari; al Senato invece ne hanno 219, più dei 207 (su 320) necessari.
Se invece la maggioranza parlamentare non raggiunge i due terzi, allora scatta un’altra scadenza temporale di tre mesi. In questo periodo, un quinto dei membri di una Camera oppure cinquecentomila elettori oppure cinque Consigli regionali possono chiedere che sulla modifica si tenga un referendum cosiddetto “costituzionale” per confermare o bocciare la modifica – se invece i tre mesi passano senza nessuna richiesta, la legge è approvata. Il referendum costituzionale ha la particolare caratteristica di non richiedere un quorum per essere valido: in Italia se ne sono svolti soltanto due, nel 2001 per la riforma del Titolo V della Costituzione – che venne approvata – e nel 2006 per la cosiddetta devolution del governo Berlusconi – che venne respinta. Quello del 1946 tra monarchia e repubblica era un caso particolare e di tipo diverso, un referendum cosiddetto “istituzionale”.
Nel suo discorso di insediamento al Senato, il 24 febbraio, Matteo Renzi aveva detto: «vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’Aula». Più recentemente Renzi ha promesso di ritirarsi dalla politica se non riuscirà a portare a termine la riforma del Senato. Due giorni fa però il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha detto a Repubblica di non essere d’accordo con la proposta e di immaginare “un Senato composto da senatori eletti dai cittadini contestualmente alle elezioni dei consigli regionali, e una quota di partecipazione dei consiglieri regionali eletti all’interno degli stessi consigli”. Alla riforma del Senato è legata anche la riforma della legge elettorale: a causa di un accordo politico tra la maggioranza e Forza Italia, la legge approvata il 12 marzo alla Camera è valida solo per la Camera. La legge elettorale deve comunque essere ancora discussa e approvata del Senato.
31 marzo 2014