E’ morta la sorella del fotografo italiano Fabio Polenghi, ucciso a Bangkok nel 2010
VI INVITO A LEGGERE L’ARTICOLO (QUI SOTTO) DI ALESSANDRO URSIC PUBBLICATO SU LA STAMPA DI TORINO CHE NOI COME AMICI STRETTI DI ISA POLENGHI ABBIAMO DECISO DI DIVULGARE PER FARLA CONOSCERE E PER RICORDARE A TUTTI COME “LAVORANO” LE ISTITUZIONI ITALIANE.ac
Un tumore al pancreas si è portato via il 28 aprile Elisabetta “Isa” Polenghi, e con lei quella che dal 19 maggio 2010 era la sua ragione di vita: ottenere giustizia per l’uccisione del fratello Fabio, anche lui fotografo, trapassato al petto da un proiettile durante la repressione delle proteste anti-governative delle “camicie rosse” thailandesi. Isa se n’è andata in silenzio, proprio lei che a far rumore aveva dimostrato di essere bravissima. E il silenzio, è triste constatarlo, sarà anche il modo in cui verranno ricordate in Italia la sua lotta e la stessa figura di Fabio Polenghi.
Isa è morta a Milano, dopo una malattia che l’aveva consumata negli ultimi mesi e di cui aveva informato solo chi le era più vicino. Eppure i primi a riportarlo sono stati dei giornalisti thailandesi, e io stesso ho faticato – senza essere sorpreso – a trasmettere l’importanza della notizia in Italia, dove più passava il tempo e più il nome di Polenghi veniva dimenticato dagli stessi giornalisti. Ogni volta che ho dovuto scriverne, dovevo sempre ricordare i fatti a chi di dovere con formule come “Sì, Polenghi, quel fotografo italiano ucciso a Bangkok nel 2010… la sorella ha portato avanti un’encomiabile lotta per la giustizia, ricordi?”.
Ma quella perdita di un coraggioso reporter, e di conseguenza il laborioso procedimento giudiziario che Isa era riuscita a portare avanti solo grazie alla sua insistenza, nella memoria collettiva italiana non sono mai entrati, per diversi motivi. La Thailandia è quel “Paese dei sorrisi” meta turistica di molti italiani, ma le divisioni politiche che l’attanagliano sono troppo distanti dall’Italia per lasciare un segno. Polenghi ha perso la vita durante una caotica situazione di guerriglia urbana, trovandosi nel mezzo della battaglia senza un giubbotto antiproiettile. E da freelance nomade, non aveva alle spalle un’organizzazione mediatica che ne alimentasse la memoria. Se vi ricordate Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli ma non lui, capirete cosa intendo.
A ogni viaggio di Isa Polenghi in Thailandia – nove in tre anni – per raccogliere prove, richiedere appuntamenti, coordinarsi con gli avvocati e i testimoni, assistere alle udienze in una lingua che non comprendeva, l’interesse dei media locali cresceva. Chi era questa ostinata donna dalla perenne zazzera bianca, in maglietta e pantaloni comodi anche nelle aule di tribunale, che sfidava l’oscura giustizia thailandese puntando il dito contro l’esercito? Le forze armate sotto accusa per mano di una straniera, in un Paese dove nessun militare è mai stato condannato per nessun reato, nonostante 18 colpi di stato e una lunga scia di sangue in nome della difesa della trinità “nazione, religione, monarchia”?
Ma in Italia, tutto questo arrivava col contagocce. Isa se n’era resa conto ben presto, rassegnandosi all’evidenza. Io ne ho scritto periodicamente per l’Ansa, ma dubito che quelle notizie siano state riprese da molti giornali. Una giornalista di RaiNews 24 aveva preso a cuore il suo caso, intervistandola in tv. Altro di rilevante non mi risulta, e anche le nostre istituzioni sembravano disinteressate, quasi che il nome di Polenghi fosse ormai una seccatura. Nel frattempo, la Bbc aveva ricostruito la sua vicenda in un bellissimo documentario di un’ora. A Bangkok, Isa era ormai conosciuta da tutti i giornalisti che bazzicano attorno al Foreign Correspondent Club, dove aveva organizzato una mostra con le ultime immagini scattate dal fratello. Giornali e tv seguivano gli sviluppi della sua battaglia, incantati da tale perseveranza. Più di una volta, al capire che ero un giornalista italiano, qualche thailandese mi ha detto “ah, italiano come quel fotografo”.
Isa era ormai completamente assorbita dalla battaglia in nome di Fabio, nella quale aveva investito tutti i suoi risparmi, vendendo anche il suo studio fotografico. Sempre più stanca a ogni visita, frustrata dal muro di gomma ma non spezzata. Da chi era partito il colpo e perché? Chi era quell’uomo che – lo si vede in alcuni video – rubò la macchina fotografica di Polenghi non appena cadde a terra? Com’è che non si è mai riusciti a rintracciarlo? Una parziale vittoria l’aveva ottenuta nel maggio dell’anno scorso, quando una sentenza aveva stabilito che il proiettile era partito dalla parte dell’esercito. In aula c’erano Isa, la sorella Arianna e anche la madre. Parzialmente sollevate le altre due donne – almeno sapevano chi incolpare – ma non Isa, che vedeva il bicchiere mezzo vuoto. La verità non era ancora emersa come avrebbe voluto, e lei già pensava a come riaprire il caso in altre sedi.
Tutti quelli intorno a lei cercavano di farle pensare positivo. Era già un passo insperato, appunto per l’influenza dei militari in Thailandia. Si vedeva che Isa era combattuta: ascoltava i pareri degli altri e in parte li condivideva, ma il fuoco che l’animava da quel 19 maggio 2010 continuava a bruciarle dentro. Dopo la sentenza, la madre mi disse: “Mia figlia da quel giorno non vive che per suo fratello, non ha più una vita sua”. Si era consumata, davvero. Ma era ancora capace di sorridere, così come aveva fatto quando le avevano consegnato in camera d’albergo l’urna con le ceneri di Fabio. Ero lì con lei, colpito dalla sua forza, e ricordo ancora nitidamente la scena. “Guarda come mi tocca riportare a casa mio fratello”, mi disse. Senza piangere, e abbozzando un sorriso amaro. L’abbracciai forte per salutarla. Mentalmente, lo faccio anche ora.
2 maggio 2014