Mentre scrivo rimbomba ancora l’eco dell’intervista a due voci pubblicata dal settimanale tedesco “Zeit” con l’economista di Harvard, Kenneth Rogoff da una parte e il Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble dall’altra parte, durante Ia quale Schaeuble ha ripetuto che la Grecia non può stare nell’euro e chiedere aiuti senza un programma economico. E’ soltanto una minaccia? Secondo gli Stati Uniti non lo è. Infatti alla riunione dei ministri finanziari e dei governatori del G7 che si è conclusa ieri a a Dresda, gli Stati Uniti, hanno manifestato tutte le loro preoccupazioni del possibile contagio dell’uscita della Grecia dall’unione monetaria, non solo sull’Eurozona, ma su tutta l’economia mondiale. Pertanto hanno continuato a mediare fra Atene e i suoi creditori, facendo pressione sul Governo greco, ma soprattutto su Fondo monetario e la Germania perché mostrino maggior flessibilità nel negoziato. Ancora una volta l’immagine che se ne ricava è che le sorti dell’Europa, aggiungerei del mondo dipendano da quel che farà la Germania. Almeno questa è l’immagine che gli americani cercano di diffondere. Ma è davvero così? Questo articolo che volentieri pubblico, una risposta la dà.
di Vincenzo Maddaloni
BERLINO. Sicuramente per celebrare i loro fasti coloniali, l’approccio degli inglesi non sarebbe stato lo stesso. Avrebbero rispolverato le cornamuse, i pifferi tra un grande sbattere di tacchi e l’arroganza che li contraddistingue.
Infatti,diverso è il tono usato dei tedeschi. Discreto, sommesso quasi pretesco, ma non per questo meno pervaso di orgogliosa solennità. Ne è una riprova la mostra “Dance of the Ancestors Art from the Sepik of Papua New Guinea” (resterà aperta fino al 15 di giugno al Martin-Gropius-Bau di Berlino), che offre lo spunto per ricordare che è esistito pure l’Impero coloniale tedesco il Deutsche Kolonien und Schutzgebieteeche durò soltanto 35 anni. Infatti, la Nuova Guinea è stata dal 1884 un protettorato tedesco che comprendeva il territorio della parte nord-orientale del Paese e alcuni arcipelaghi vicini, che rimasero appunto sotto il controllo coloniale germanico fino al 1919 quando, a seguito della sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale, furono ceduti con il Trattato di Versailles all’Australia.
E così il defilé di sculture e di antiche immagini nella mostra al Martin-Gropius-Bau di Berlino fa tornare in mente Christa Wolf quando scrive che: “Il passato non è morto; e non è nemmeno passato”, sebbene, “noi ci stacchiamo da esso fingendoci estranei”.
Beninteso la memoria del passato – tra rimozione ed eterno ritorno – non ci guadagna in profondità e in complessità, piuttosto in semplificazione, superficialità, e sempre più spesso in manipolazione. Non parlo qui della ricerca storica, bensì della memoria pubblica, collettiva e politica, costituita da moltissimi elementi a loro volta condizionati dalla volgarizzazione della cultura di base realizzata con le forme moderne di retorica e di populismo, messe in atto con i mass-media e la televisione in particolare. Sicché i potenti non possono che esserne soddisfatti.
A loro modo, lo facevano anche gli antichi romani: panem et circenses(letteralmente «pane e giochi [del circo]» e, quindi, dando a tutti la percezione di condividere un’idea di civiltà, di bene comune. E’ l’universalismo, la globalizzazione che ha dato vita a queste società che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo, ma sono prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone. Pertanto la partecipazione civile si limita sempre di più a funzioni che permettono di raccomandare un contenuto, una memoria storica, un gesto politico con il fatidico e il semplice “mi piace”.
I tedeschi – finché possono – mantengono le distanze da questo universalismo dirompente che tanto piace agli anglosassoni che lo impongono. Ai tedeschi viene naturale prima evidenziare le differenze e poi, eventualmente, unirsi. Poiché è l’insicurezza cosmica che da sempre li guida nelle cose del mondo. È quella che li ha indotti a riformare la loro economia quando gli altri, America in testa, folleggiavano.Un segno di avvedutezza che li legittima nella guida d’Europa. Ne vanno fieri.
E’una consuetudine di governo che ha radici antiche.Infatti la bandiera tedesca fu piantata nel Pacifico non dalle armate del sovrano, bensì da Herr Adolf von Hansemann, direttore della Disconto-Gesellschaft, una delle più importanti banche tedesche dell’epoca e fondatore della Compagnia della Nuova Guinea Tedesca, la Deutsche Neuguinea-Kompagnie creata il 26 maggio 1884 con lo scopo di fondare una nuova colonia commerciale nella regione della Nuova Guinea non ancora occupata dalle altre potenze coloniali. Il governo tedesco però vi giunse due anni dopo poiché l’intraprendente direttore sommerso dalle difficoltà fu costretto a “girare” allo Stato il mandato della Deutsche Neuguinea-Kompagnie.
Raccontano i libri di Storia che soltanto il 1º aprile 1899 la Germania prese ufficialmente il controllo del territorio e il 30 luglio di quello stesso anno, a seguito di un trattato con la Spagna, acquisì dei nuovi territori, diventando una potenza coloniale da tutti paesi riconosciuta.
Come tale durò poco poiché, come detto, allo scoppio della prima guerra mondiale le forze australiane occuparono Kaiser-Wilhelmsland mentre il resto dei possedimenti coloniali della Nuova Guinea Tedesca vennero invasi dal Giappone. Dopodiché con il Trattato di Versailles l’avventura coloniale germanica si estinse.
Di questo e di altro se ne fa cenno nel catalogo della mostra al Martin-Gropius-Bau, ma soltanto per ricordare che la Grande Guerra bloccò l’opera degli esploratori tedeschi i quali avevano scoperto le foci del fiume Sepik dopo aver per primi navigato quelle acque sulla nave tedesca Ottilie. E chissà quant’altro avrebbero scoperto ancora se non ci fosse stato il conflitto, lascia intendere la breve nota della mostra.
Naturalmente essa ricorda pure che la spedizione (1912-1913) del Königliches Museum für Völkerkunde(Museo Reale di Etnologia) di Berlino è bastata per far capire al mondo che la zona intorno al fiume Sepik è una delle regioni più importanti per la ricerca etnografica e scientifica nei mari del Sud. La conclusione è , anche se non è scritto in modo esplicito, che da quando il mandato della Società delle Nazioni è stato affidato all’Australia con il nome di Territorio della Nuova Guinea, si è fatto ben poco, quasi niente.
Ricordo che quando negli anni Settanta attraversai per la prima volta l’exKaiser-Wilhelmsland diventato Papua Nuova Guinea; dalla capitale Port Moresby a Mount Hagen, da Angoram sul fiume Sepik fino a Wewak che si affaccia sul Mare di Bismarck, di tedesco oltre il nome del mare era rimasto ben poco, almeno così sembrava al primo impatto.
Invece, per essere nel vero, erano rimaste le parrocchie luterane e cattoliche, più numerose le prime delle seconde, sebbene le cattoliche siano ancora oggi le più “fortunate” per numero di fedeli, poiché i loro riti ecclesiali meglio si conciliano col folclore dei culti dei nativi. Inoltre, ancora si parlava e si parla tuttora una sorta di lingua locale mescolata alla lingua germanica denominata Unserdeutsch oppure il Creolo tedesco di Rabaul, la città che fu per oltre un ventennio il quartier generale della Nuova Guinea Tedesca.
Insomma, se si tiene a mente che il 30 per cento della popolazione pratica culti tradizionali, per lo più combinandoli con il Cristianesimo e il restante 69 per cento degli abitanti dichiara di praticare esclusivamente la religione cristiana, ben si capisce che i tedeschi hanno lasciato un segno indelebile. E quel risultato non l’hanno gridato, anzi non l’hanno nemmeno celebrato,nemmeno adesso, con la mostra.
Un altro segnale di avvedutezza che rientra nelle abitudini tedesche. Non vi è Paese in Europa dove il dibattito politico sia così attutito dal bisogno di non spaventare gli elettori e i vicini. Non vi è mai nulla di gridato.Decisamente l’opposto di quanto accade in Italia.
La differenza si vede. Il Paese è competitivo, stabile come mai lo è stato e il governo di Angela Merkel è inattaccabile per chiunque voglia criticarne i risultati. Eppure George Friedman, americano di origini ungheresi, presidente del think-tank Stratfor, “un’autorità” in materia di intelligence tattica e strategica globale, come lo ha definito il NYTimes, parlando della Germania ha usato parole pesanti come pietre.
Ha detto:
“Per gli Stati Uniti la paura fondamentale è che il capitale finanziario e la tecnologia tedeschi si saldino con le risorse naturali e la mano d’opera russe”. Ha aggiunto che è “l’unica alleanza che fa paura agli Stati Uniti, cerchiamo di impedirla da un secolo”.
E ancora:
“Mentre gli Stati Uniti stendono il loro cordone sanitario fra Europa e Russia, e la Russia cerca di tirare l’Ucraina dalla sua parte, non conosciamo la posizione della Germania – che con la Russia ha relazioni particolari”. (per esempio l’ex Cancelliere Schoeder oltre a presiedere il consorzio NorthStream è nel cda di Gazprom).
Friedman parlava al Chicago Council of Global Affairs, una sorta di sede distaccata dell’influente Council of Foreign Relations nel cui board figura anche Michelle Obama. Eppure il presidente del think-tank Stratfor non s’è posto complessi quando ha concluso ribadendo con veemenza che:“La Germania è la nostra incognita. Cosa farà? Non lo sanno nemmeno loro, i tedeschi”. Insomma per Friedman la Germania “ gigante economico, ma fragile a livello geopolitico è l’eterno problema. Dal 1871 la questione europea è questione tedesca”.
Non v’è stato un cenno ai comportamenti dell’Italia, per non dire della Francia e di tutto il resto dell’Europa. Dopotutto, “io sono il primo servitore dello Stato”, lo disse Federico, re di Prussia, mica altri.
Se lo si confronta con l’irrefutabile “L’Etat c’est moi” di Luigi XIV rifulge in tutta la sua dimensione la diversità tedesca. Essa offre sempre nuovi pretesti agli americani per erigersi a dominatori del mondo; innervosisce gli inglesi, mette in crisi di identità i francesi, mentre i polacchi e i baltici si affannano riverenti a sostenere le mire americane, gli italiani titubano e quel che resta dell’Unione balbetta. Quanto basta perché l’Europa si ritrovi di nuovo in guerra per colpa dei tedeschi? E’ il post martellante che i neo conservatori americani diffondono. Attendendosi il “mi piace”.
Questo articolo è stato pubblicato su:
GEOPOLITICA. Rivista dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
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Fonte: vincenzomaddaloni.it
30 maggio 2015