Il Marocco ha perso una delle figure emblematiche del femminismo del regno. La sociologa e scrittrice Fatima Mernissi è morta questa mattina , 30 novembre, all’età di 75 anni. Docente di sociologia presso l’Università Mohammed V di Rabat, dagli anni ’80 ha scritto diversi libri sul ruolo delle donne nella società, tra cui La terrazza proibita, L’harem e l’Occidente, Chahrazad non è marocchina. L’intellettuale ha continuato a scagliarsi contro il patriarcato nella cultura musulmana. Mernissi difendeva un concetto umanistico in cui le donne devono assumere il loro ruolo nella lotta attraverso le parole, l’arma principale per raggiungere l’uguaglianza e fare la rivoluzione. Mernissi è stata tra le fondatrici della “Carovana civica” e del gruppo “Donne, famiglie, bambini”. Negli ultimi anni si è interessata all’impatto delle nuove tecnologie della comunicazione nella nascita della società civile nel mondo arabo.
Pubblichiamo il capitolo finale del libro L’Harem e l’Occidente ( 2000 ), considerato il suo capolavoro, nel quale la sociologa espone una sua idea molto provocatoria secondo la quale se le donne musulmane hanno il dovere di indossare il velo, quelle occidentali vivono oppresse dall’obbligo di “entrare” nella taglia 42, imposto dai “profeti della moda”.
La storia si inizia:
“Fu in un grande magazzino americano, nel corso di un fallimentare tentativo di comprarmi una gonna di cotone, che mi sentii dire che i miei fianchi erano troppo larghi per la taglia 42. Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti quali l’Iran, l’Afghanistan o l’Arabia Saudita“.
Ecco il simpatico dialogo, riportato dalla Mernissi, che ha avuto luogo tra lei e la commessa:
“La commessa aggiunse un giudizio condiscendente che suonò per me come la fatwa di un imam:
– Lei è troppo grossa!
– Troppo grossa rispetto a cosa?
– Rispetto alla taglia 42. Le taglie 40 e 42 sono la norma. Le taglie anomale come quella di cui lei ha bisogno si possono comprare in negozi specializzati. All’improvviso in quel tranquillo negozio americano in cui ero entrata così trionfalmente nel mio legittimo status di consumatrice sovrana, pronta a spendere il proprio denaro, mi sentii ferocemente attaccata:
– E chi decide la norma? Chi lo dice che tutte devono avere la taglia 42?
– La norma è dappertutto, mia cara, su tutte le riviste, in televisione, nelle pubblicità. Non puoi sfuggire. C’è Calvin Klein, Ralph Laurent, Gianni Versace, Giorgio Armani, Mario Valentino (…) Da che parte del mondo viene lei?
– Vengo da un paese dove non c’è una taglia per gli abiti delle donne. Io compro la mia stoffa e la sarta o il sarto mi fanno la gonna di seta o di pelle che voglio. Non devo fare altro che prendere le mie misure ogni volta che ci vado. Nè la sarta nè io sappiamo esattamente la misura della gonna nuova. Lo scopriamo insieme mentre la si fa. A nessuno interessa la mia taglia in Marocco fintanto che pago le tasse per tempo. Attualmente non so proprio quale sia la mia taglia, a dire il vero. (…)”
Fatima Mernissi nota in questa occasione che: “l’Occidente è l’unica parte del mondo dove la moda della donna è un affare dell’uomo“.
Il problema sembra avere radici più profonde che affondano nella preservazione dell’egemonia maschile, in una società essenzialmente patriarcale. Ma mentre l’uomo musulmano ha limitato il raggio d’azione della donna nello spazio, con la realizzazione dell’harem e dello hijàb che rappresenta una barriera tra lo spazio pubblico e il privato, l’uomo occidentale ha imprigionato la donna in una dimensione temporale: quella dell’eterna adolescenza. Una donna matura è più pericolosa e meno controllabile di una che abbia le sembianze di una quattordicenne, esile, passiva, indifesa.
Secondo Naomi Wolf: “Una fissazione culturale sulla magrezza femminile non è un ossessione sulla bellezza, bensì un ossessione sull’obbedienza femminile … Le diete sono il sedativo più potente di tutta la storia delle donne: una popolazione fatta di pazzi tranquilli è molto manipolabile”.
A questo proposito afferma ironicamente Fatima Mernissi: ” Noi donne musulmane abbiamo un mese solo di digiuno, il Ramadan, ma le povere donne occidentali sempre a dieta devono digiunare dodici mesi all’anno“.
La donna occidentale sente di esistere solo quando sa di essere osservata; solo attraverso lo sguardo dell’uomo il suo essere (esse) è un essere percepita (percepi). Questo stratagemma del tempo in cui viene imprigionata è ben più subdolo e pericoloso di quello dello spazio perchè è impresso nella sua stessa pelle.
“Imparando a diventare un bell’oggetto, la ragazza impara l’ansia – forse persino il disgusto – verso la sua stessa carne. Scrutando ossessivamente nei reali così come nei metaforici specchi che la circondano, desidera letteralmente “ridurre” il proprio corpo. Nel diciottesimo secolo questo desiderio di essere bella e fragile portò all’uso di corpetti stretti e a bere aceto. La nostra epoca, invece, ha prodotto innumerevoli diete e digiuni “controllati”, così come lo straordinario fenomeno dell’anoressia adolescenziale”. Sandra Gilbert e Susan Giubar: Tha Madwoman in the Attic (1979).
Conclude la Mernissi intuendo ciò che rende le donne occidentali inconsapevoli e mute di fronte al loro problema: “Immagina i fondamentalisti, se obbligassero le donne non solo a mettere il velo, ma un velo di taglia 42! Come si fa a organizzare una marcia politica credibile e gridare nelle strade che i tuoi diritti umani sono stati violati perché non riesci a trovare una gonna che ti va bene?“.
In una delle sue ultime interviste riassume il suo pensiero sull’Islam e l’Occidente: “L’Arabia Saudita è uno strano paese, così come lo sono Afghanistan e Pakistan. Le persone che praticano la lapidazione invece non sono solo strane, direi che sono folli criminali. Non appartiene alla mia cultura, non ne ho mai sentito parlare in Marocco. Certo i folli, come è noto, sono ovunque. Ad esempio, qualche tempo fa in Germania una donna è stata uccisa da un pazzo soltanto perché indossava il velo. Anche quella dei talebani è follia. I musulmani invece sono contrari alla violenza – ora più che mai, anche per reazione. Il ritratto di un islam sanguinario è un prodotto dell’Occidente, non appartiene al paesaggio dell’islam che conosco direttamente. Io stessa non andrei in Arabia Saudita perché lì non sarei libera. Tutto sta nella libertà di scelta – di indossare o non indossare il velo, di pregare nella moschea o celebrare le feste con gli amici. E l’islam lascia questa libertà. Se qualcuno volesse togliercela, scenderei in strada a protestare. Osserva le spiagge di Rabat, sono lo specchio della nostra società: alcune donne nuotano in bikini, altre in jeans o con una gonna lunga. Ma sono felici, gli uomini e le donne giocano sulla sabbia e si godono le vacanze. Ripongo anche delle speranze negli intellettuali occidentali poiché essi non credono di appartenere all’unico, fantastico, infallibile sistema, che tutti gli altri dovrebbero seguire. La tecnologia è stato il miglior dono dell’Occidente, poiché ha messo in moto l’individuo e la sua libertà. E credo che sia proprio questo «boom» a spaventare l’Ovest: l’islam è la bestia nascosta dell’Occidente. Perché infatti fa così tanta paura? Forse perché proietta all’esterno l’inconscio dell’Occidente? Ho scritto per la Tate Gallery un testo proprio dedicato all’inconscio.“.
30 novembre 2015