I minori rifugiati in Europa sono vittime due volte

Migranti in attesa di essere registrati nel campo di Opatovac (Croazia), il 23 settembre 2015. Marko Djurica/Reuters

Migranti in attesa di essere registrati nel campo di Opatovac (Croazia), il 23 settembre 2015. Marko Djurica/Reuters

I minori rappresentano fino a un quarto del totale dei migranti arrivati in Europa negli ultimi mesi. Secondo le Ong e le associazioni di volontari la loro gestione è però molto difficile

irene-saviodi Irene Savio

Campo profughi di Opatonac, Croazia. — Senza smettere di piangere un bambino di non più di sei anni grida e si agita fino quasi ad alterarsi. Oggi, quando scriviamo questo reportage, nel campo profughi di Opatovac, alla frontiera con la Serbia, qualcuno ha avuto l’idea di separarlo da sua madre durante il processo di identificazione ma, disorientati, molti bambini si rifiutano di obbedire. Vedono le loro madri dietro le recinzioni e si disperano. I volontari giocano con loro e cercano di calmarli. Ma non è un compito facile.

Secondo stime dell’Unicef, il cui personale si trova sul luogo, i bambini rappresentano il 25% dei quasi 200mila rifugiati entrati in Croazia dallo scorso 16 settembre (quando, in seguito alla chiusura della frontiera tra la Serbia e l’Ungheria, i migranti hanno iniziato a passare dalla Croazia). Ci sono bambini di tutte le età e quasi tutti presentano traumi che non si cancelleranno facilmente. E non è solo questo. “Oltre ai danni psicologici provocati dalla loro situazione, hanno ferite ai piedi dal tanto camminare, malattie gastrointestinali per la mancanza di condizioni igieniche e infezioni polmonari perché hanno dormito all’aperto, nelle intemperie”, racconta Valentina Otmatic, direttrice di Unicef Croazia.

È così drammatico quello che questi bambini devono affrontare che alcuni sembrano già adulti, anche se non lo sono ancora. È il caso di Bahir, un adolescente siriano di 14 anni. Quando lo incontriamo discute con suo fratello su come aggirare gli ostacoli per arrivare in Germania. Poco dopo, tuttavia, getta la maschera e si abbandona nelle braccia di un giovane curdo poco più grande di lui. Si sono conosciuti in viaggio e, come altri, hanno formato un gruppo per proteggersi in caso di pericolo. “Dove ci porteranno?”, chiede Bahir.

Nessuno risponde. Intorno uno sciame di persone, file di tende militari ed erculei agenti dell’Unità di Pronto Intervento della Polizia. Tra di loro c’è anche una famiglia di afgani con una bambina con sospette macchie rosse sul viso e la siriana Afrah che ogni tanto si tocca il pancione come se ci portasse dentro tutto il dolore del mondo. In realtà si è sposata prima di iniziare il viaggio e ora è incinta di cinque mesi. Come molte altre donne gravide presenti tra i rifugiati, vuole continuare il suo percorso nonostante le sue condizioni.

Minori soli

Estremo, sì. Come i bambini che da soli stanno percorrendo chilometri e chilometri per raggiungere l’Europa. Da soli, sì. “La rapidità con la quale sta avvenendo questa migrazione dà luogo a fenomeni poco frequenti come quello della grande quantità di minori che viaggiano non accompagnati”, dice Otmatic, per sottolineare che è urgente la creazione di un sistema mondiale per rintracciare questi bambini ed evitare che cadano in reti criminali.

Anche Lydia Gall, responsabile regionale di Human Right Watch (HRW), pensa che procedure come dividere le famiglie per identificarle, in mezzo a enormi quantità di persone, contribuiscono al fatto che i minori rifugiati perdano i loro parenti. Secondo Gall “la gente si sta perdendo in mezzo alle incomprensioni, alle frontiere chiuse, ai funzionari e agli operatori sociali sopraffatti”. È così drammaticamente vero che alla stazione dei treni di Vienna è già apparsa una bacheca dove vengono appesi disperati annunci di migranti che hanno perso i loro familiari durante il viaggio.

Tuttavia questi fenomeni non sono esclusivi dei minori che passano per le rotte dei Balcani.

È una situazione che esiste anche lungo il confine tra la Spagna e il Marocco e che si registra nelle isole siciliane in Italia, dove questi bambini arrivano a bordo di barconi malconci dopo un pericoloso viaggio in mare. Pochi giorni fa la sezione italiana dell’Unicef ha ricordato che solo nei primi sei mesi di quest’anno le autorità europee hanno registrato 106mila domande di asilo di bambini migranti. E anche Save The Children, che lavora nei luoghi di arrivo di questi minori, ha presentato cifre ancora più inquietanti: “Nei primi 9 mesi di quest’anno, 411.567 persone hanno attraversato il Mediterraneo, 11.257 delle quali sono bambini e 8.560 sono arrivati senza familiari”, ha indicato l’organizzazione.

“Avevo 7 anni e mezzo quando sono scappato dall’Eritrea. L’ho fatto perché mi volevano obbligare a prestare servizio militare e questo avrebbe messo fine a qualsiasi speranza di trovare un futuro migliore”, dichiarava recentemente a un giornale svizzero Tesfai, un minore eritreo che ha impiegato 8 anni per arrivare in Italia. “Per questo me ne sono andato”, ha raccontato l’ormai adolescente che ora è sano e salvo e ha trovato casa nel canton Ticino.

Un’altra testimonianza è quella dell’associazione El Puente Solidario, che è stata fondata nel settembre scorso per aiutare i molti bambini subsahariani che si trovano a Tangeri e hanno difficoltà ad entrare in Europa a causa della recinzione spagnola. Aissatou Toubarry, immigrato dalla Liberia, che ha creato l’organizzazione, ha spiegato che gran parte di questi bambini ha terribili storie alle spalle. Come, per esempio, essere figli di oppositori politici nei paesi in cui questo rappresenta un pericolo mortale o provenire da famiglie poligame ed essere stati respinti dai loro padri. E, in Marocco, le autorità non danno certo loro un trattamento speciale.

Tutto questo, naturalmente, è anche una sfida per le organizzazioni e le autorità che rilevano la presenza dei minori che arrivano soli in Europa. “Quando ci rendiamo conto che un migrante è un minore valutiamo molte cose: se nel suo gruppo c’è qualcuno che si occupa di lui, la sua età e il suo stato di salute. Se è possibile, cerchiamo anche di contattare i suoi familiari nel paese di origine. Poi decidiamo se rimpatriarli, darli in mano ai servizi sociali del paese dove è arrivato o permettere loro di proseguire il viaggio”, ha confessato a questo mezzo una cooperante. “Ma la realtà è che si tratta di una situazione molto complessa, perché è impossibile sapere con certezza qual è la cosa migliore”.

Tradotto dallo spagnolo da Arianna Plebani

Fonte: VoxEurop in collaborazione con #OpenEurope.

9 novembre 2015

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