Quando il cosiddetto sviluppo del territorio caro ai grandi interessi e micidiale per tutto il resto diventa politica nazionale e pure strategica di occupazione autoritaria dello spazio
di Orlando Cecini
Più che a un piano aeroporti, quello presentato nei giorni scorsi dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi, assomiglia a un piano strade. La riorganizzazione degli scalisuddivisi in strategici, nazionali e locali, non aggiunge né toglie nulla infatti alla situazione del traffico aereo, decide a tavolino che ogni regione deve avere un aeroporto di riferimento anche se di fatto fa meno transiti di un rifugio di montagna. Invece di lasciar parlare il libero mercato, il piano – di chiara impronta statalista – di fatto certifica anche per il futuro la possibilità di buttare altri soldi pubblici in nuove infrastrutture. Anche attorno ad aeroporti che non cresceranno mai.
E’ vero, rispetto ai ministri che lo hanno preceduto nel tentativo di riorganizzazione, le piste con il certificato di valenza nazionale sono diminuite numericamente, ma è il mix di scelta a lasciare profondi dubbi. In sostanza ora esistono undici aeroporti strategici e altri 26 scali di interesse nazionale. Per individuare gli scali strategici, il territorio nazionale è stato ripartito in 10 bacini di traffico e per ciascuno è stato identificato un aeroporto strategico, con l’eccezione del Centro-Nord, dove ce ne sono due: Bologna e Firenze-Pisa che dovranno fondersi. Nel testo portato al consiglio dei Ministri il 17 gennaio scorso si scopre che in Sicilia a meritare contributi pubblici nazionali anche per le relative infrastrutture saranno Catania, Palermo, Pantelleria, Lampedusa e Comiso, che nel 2013 ha fatto registrare poco più di 60mila passeggeri. Un nulla che riesce a fare comunque bella figura se lo si mette a confronto con Brescia-Montichiari. L’aeroporto D’Annunzio, in sistema con il Valerio Catullo di Verona, nei primi 11 mesi del 2013 (ultimo dato disponibile) ha visto atterrare o decollare non più di 30 passeggeri al giorno (circa 10mila in tutto). Costerebbe meno accompagnarli in auto a destinazione.
Eppure anche Montichiari è rientrato tra gli scali da premiare, perché prima o poi diventerà cargo. L’anno scorso, a maggio, fu annunciato un importante accordo con un vettore vietnamita che avrebbe dovuto assicurare almeno un volo settimanale cargo (al momento a Montichiari atterrano praticamente solo i velivoli delle Poste con lettere e missive da smistare). Tutto è saltato. Tant’è che alcuni maliziosi ci hanno visto una mossa mediatica per far credere che le potenzialità di crescita fossero concrete. La mossa evidentemente ha funzionato. Il governo scommette su Montichiari e quando avrà bisogno di fare investimenti potrà chiederne direttamente allo Stato. Quanto scommette? Non è dato saperlo, ma quello che è certo è che per il pianificatore i “milanesi”Linate (8,4 milioni di passeggeri) e Orio Al Serio (8,3 milioni) sono allo stesso livello dello scalo bresciano.
E tutti valgono meno di Malpensa verso cui dovranno essere deferenti a cedere il passo quando si tratterà di investimenti. Chiaro. Peccato che quando si decise a priori di sviluppare lo scalo di Varese e ridimensionare Linate, i passeggeri hanno scelto Orio. Nello sguardo di Lupi, ancora più importante di questi scali lombardi c’è l’hub (si fa per dire) di Lamezia Terme. Nonostante i suoi 2 milioni di passeggeri è strategico quanto Fiumicino o Venezia. Prevale la logica politica. In questo modo tutti i referenti locali possono vantare una vittoria. Tant’è che il piano del governo non ha scontentato quasi nessuno. A parte Torino che si aspettava la certificazione di strategico, ma che comunque già si muove per aprire una trattativa. “Quello del ministro Lupi è un piano aperto al confronto, ci sono tutti gli elementi per dimostrare la valenza strategica dell’aeroporto di Torino Caselle per il Piemonte e per l’Italia. Nei prossimi giorni avremo con Lupi un incontro per affrontare la questione”, ha detto il sindaco di Torino, Piero Fassino, sottolineando che “bisogna dotare la città di infrastrutture adeguate e tra queste è fondamentale il potenziamento dell’aeroporto”.
E così si torna a discutere del leit motive: strade e cantieri. Come quelli che verranno aperti “per il soddisfacimento del previsto aumento della domanda di traffico e al fine di migliorare la qualità dei servizi”, come recita il piano Lupi che contempla “l’individuazione delle opere necessarie per il miglioramento dell’accessibilità e dell’intermodalità; le priorità degli interventi di potenziamento della rete e dei nodi intermodali di connessione e l’inserimento nella programmazione e pianificazione delle istituzioni competenti, quali urgenti ed indifferibili, dei collegamenti viari e ferroviari con i tre gate intercontinentali”.
Restano tagliati fuori dai soldi pubblici e dagli aiuti solo gli scali declassati. Siena, Albenga, Aosta, Grosseto, Bolzano, Brindisi, Foggia, Taranto, Oristano e Forlì. Ma sul loro futuro c’è solo nebbia. Chiuderanno? Non sembra. Saranno finanziati dalle Regioni, probabilmente. Con quali soldi non si capisce. Certo definirli nazionali sarebbe stato stavolta un insulto all’intelligenza dei cittadini. Basti pensare che Siena-Ampugnano (per cui il cui ampliamento nel 2010 sono stati indagati l’ex numero uno del Monte dei Paschi Giuseppe Mussari e altri 15) nei primi 11 mesi del 2013 ha fatto registrare 258 passeggeri. Di cui 71 a gennaio scorso, 187 a febbraio e poi zero. E dire che erano stati stanziati 15 milioni di euro con la previsione di raggiungere 100mila passeggeri. Insomma, rileggendo il piano Lupi e cercando di rispondere alle domande che lascia senza risposta, viene da pensare che nella migliore delle ipotesi per l’ennesima volta l’Italia pensi che debbano essere i viaggiatori al servizio dei vettori e degli scali e non viceversa oppure viene da pensare che a guadagnare saranno le aziende che vivono del business dei cantieri. Che si apriranno anche se non necessari.
Fonte: il Fatto Quotidiano
29 gennaio 2014