Domenica scorsa a Vancouver la squadra di calcio femminile Usa ha conquistato il suo terzo titolo mondiale, battendo in finale il Giappone per 5-2. La notizia ha aperto subito la gran parte dei siti di informazione americani, quantomeno al pari delle notizie sul referendum in Grecia. Mentre da Washington il presidente Barack Obama ha twittato immediatamente la sua soddisfazione: “Che vittoria Team Usa! Grande partita @CarliLloyd! Il tuo Paese è molto orgoglioso di te. Vieni a trovarci alla Casa Bianca presto con la coppa del mondo”. Non mi pare poco, pertanto una domanda nasce spontanea: se avessero vinto il campionato mondiale le italiane pensate che nel nostro Paese ci sarebbe stato lo stesso entusiasmo? Credo proprio di no, per un problema di soldi innanzitutto. Sono quelli che mancano al calcio femminile, specialmente in Italia. Mentre il business del calcio maschile impazza a tutti i livelli. Perché mai? Come ha raccontato Luisa Rizzitelli, presidente dell’Associazione nazionale atlete, il secondo gender gap è scritto nella legge: “le donne italiane, dalla prima all’ultima, non hanno accesso ad una legge dello Stato, la n. 91 del 1981 che regola il professionismo sportivo”. La legge delega al Coni la scelta delle discipline alle quali concedere il professionismo, cioè riconoscere il fatto che si fa dello sport la propria fonte di reddito principale. E le varie federazioni hanno concesso il professionismo ai livelli più alti di calcio, basket, ciclismo, motociclismo, boxe e golf: ma solo ai maschi. Questo è altro troverete in questo informatissimo articolo – “Centomila euro Il gender gap del pallone” – di Roberta Carlini, se continuate a leggere.
Centomila euro. Di questa cifra si discuteva il 5 marzo 2015 nella famigerata riunione della Lega nazionale dilettanti, al termine della quale è stato redatto il verbale contenente l’ormai famosa fase dell’(ormai) ex presidente della stessa Lega, Felice Belloli: “Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche!”. Concentratasi – giustamente – l’attenzione e l’indignazione dei più sull’ultima parola urlata come un insulto (lesbiche), è entrato in ombra l’altro termine, cruciale, della frase: soldi. Quelli che mancano al calcio femminile, soprattutto in Italia. E che ruotano all’impazzata attorno a quello maschile, a tutti i livelli, dalle stelle ai pulcini, come le dettagliate cronache che spaziano dal mondano al penale ci informano quotidianamente. Ma qual è l’economia del calcio femminile? Come e di cosa vivono le atlete? Quanto è profondo il gender gap del pallone, nel paese dei Belloli e dei Tavecchio? E tra le campionesse di Canada 2015, che innalzeranno al cielo la loro coppa nello stadio di Vancouver il 5 luglio, al termine del mondiale più partecipato della storia del calcio femminile?
Gloria, piedi d’oro e tasche vuote
Gloria Marinelli, classe 1998, attaccante del Grifo Perugia, è una giovane promessa del calcio femminile. Ha giocato l’anno scorso il Mondiale under 17 nel Costa Rica, nel quale la nazionale italiana è arrivata al terzo posto. E i giorni vittoriosi del mondiale sono stati anche gli unici nei quali la giovane calciatrice ha guadagnato qualcosa. “Ottocentotrentasei euro, come rimborso spese.Trentuno euro al giorno, per essere precisi”, racconta ridendo suo padre Mauro – che allena un’altra squadra ed è grande sponsor della figlia. Grande e unico: “Il calcio è la sua passione, da sempre, e penso che sia giusto aiutare i figli a seguire le loro passioni. E sono il primo a essere convinto del fatto che non lo si fa per soldi, con l’idea di diventare ricchi”.
Ma sta di fatto che, per Gloria come per tutte le sue talentuose colleghe, senza l’aiuto della famiglia non c’è possibilità di crescere, nel calcio. “Fino ai quattordici anni si allenano nelle squadre miste, con i ragazzi. Dopo, serve che ci sia una squadra solamente femminile: e in molti posti non c’è”, spiega Marinelli. La sua famiglia vive ad Agnone, nobile ma piccolo paese nel Molise, e quando è stato chiaro che Gloria voleva continuare a giocare la famiglia ha dovuto fare una scelta: farla partire, a proprie spese.
Anche perché l’aveva chiamata nel suo vivaio una squadra di serie A, il Grifo Perugia. Il primo gender gap nasce proprio nel vivaio: se una squadra di serie A ‘punta’ un ragazzino di talento, lo prende a colpi di centinaia di migliaia di euro dal suo club, e al maschietto vanno in tasca almeno 100.000 euro l’anno. Per i club femminili, invece, non c’è storia: alle ‘grandi’ riescono a dare uno stipendio da statale, ma per le ragazze del vivaio spesso non ci sono che piccoli rimborsi spese. “Mia figlia si è trasferita a Perugia, per evitare di lasciarla sola è andata con lei la sorella più grande, che adesso studia lì. L’affitto e tutte le spese le paghiamo noi. Finora abbiamo speso 20mila euro”.
Come mai? Come ha raccontato Luisa Rizzitelli, presidente dell’Associazione nazionale atlete, ilsecondo gender gap è scritto nella legge: “le donne italiane, dalla prima all’ultima, non hanno accesso ad una legge dello Stato, la n. 91 del 1981 che regola il professionismo sportivo”. La legge delega al Coni la scelta delle discipline alle quali concedere il professionismo, cioè riconoscere il fatto che si fa dello sport la propria fonte di reddito principale. E le varie federazioni hanno concesso il professionismo ai livelli più alti di calcio, basket, ciclismo, motociclismo, boxe e golf: ma solo ai maschi. In nessuna disciplina dello sport in Italia è previsto che le donne siano professioniste.
Sono tutte dilettanti, dalla massa delle neo-atlete che si allenano nelle piscine, sui campi e nelle palestre fino a Federica Pellegrini, Valentina Pezzali, Tania Cagnotto. Per gli sport più popolari, quelli con maggior seguito, rimediano gli sponsor, delle squadre e delle singole atlete. Altra entrata fondamentale, ma anche questa legata alla popolarità dello sport, sono i diritti tv. Ma questo sistema, se ‘salva’ o rende anche ricche le punte di eccellenza dello sport femminile, non copre la massa delle atlete, che, essendo eterne ‘dilettanti’ per legge, sono anche impossibilitate ad avere uno stipendio sportivo.
E la mancanza di riconoscimento professionale comporta l’assenza di tutti i diritti a questo collegati: tutela assicurativa, pensioni, sanità. Retribuzione e congedi in gravidanza? Neanche a parlarne. “Per molte l’unica strada è quella di fare il concorso per la Guardia di finanza, entrare nelle Fiamme Oro”, dice Marinelli. E infatti il pantheon delle nostre atlete è pieno di poliziotte, finanziere, carabiniere.
È il mercato, bellezza?
Si potrebbe pensare che questa sia la dura legge del mercato: i soldi vanno dove rendono, cioè dove uno sport ha molto pubblico. Senonché, una delle ragioni di esistenza delle federazioni sportive è proprio quella di promuovere la diffusione degli sport, e dunque aiutare anche la nascita di un mercato. Per ora, i club calcistici sono molto restii a fondare squadre femminili, poiché all’inizio il settore non potrà che essere in perdita: di qui la richiesta di fondi che tanto ha irritato Belloli.
Ma senza finanziamenti, anche i grandi colossi si muovono a rilento: guardare per credere cosa succede nella serie A, dove in teoria entro l’anno tutti i club dovrebbero aprire una squadra femminile. Tutto ciò è successo, con il solito anticipo, negli altri paesi europei. Ne sanno qualcosa in Germania, dove i forti investimenti nel calcio femminile hanno fruttato. Se alla finale del campionato femminile qualche settimana fa ha presenziato Angela Merkel in persona, qualche motivo c’è. In Germania il calcio femminile ha 5.486 club e 250mila giocatrici, da noi i club sono 365 e le calciatrici circa 1.300.
Ma anche laddove il mercato è già arrivato, seguendo i grandi numeri del rettangolo verde femminile, ferve la polemica sul gender gap. Negli Stati uniti, per esempio, mentre il calcio maschile è sport di recente popolarità, quello femminile ha ottimi numeri, come risultati e come pubblico. Eppure,Bustle.com ha confrontato la situazione di due star nei rispettivi campi: Sidney Leroux, una delle protagoniste dei mondiali femminili in Canada (campionessa olimpica del 2012), guadagna tra i 60.000 e i 92.000 dollari l’anno (sponsorizzazioni incluse), mentre Jozy Altidore, suo coetaneo della nazionale maschile, prende 6 milioni di dollari escluse le sponsorizzazioni.
Alle polemiche sul pay gap, la Fifa risponde mostrando i diversi incassi dei mondiali maschili e femminili: “Ci vorranno 23 coppe del mondo perché si possa raggiungere la stessa paga”, ha detto il segretario generale della Fifa Jerome Valcke, dimenticando che la missione della sua organizzazione non è quella di far profitti, ma di far sviluppare il calcio ovunque e per tutti. Aspettare il 2107 per avere la parità dei salari è un po’ troppo. Soprattutto per atlete che si sono mostrate molto combattive, non solo in campo ma anche per la difesa dei propri diritti.
Proprio in vista dei mondiali, in Canada ha tenuto banco una forte polemica sul tipo di manto usato per gli stadi, molto più scadente, pericoloso e nocivo di quello dei maschi. Mentre si è scoperto che il business del mondiale femminile sarà più piccolo di quello maschile, ma è in crescita: quest’anno ci sono 24 squadre (otto in più che nelle scorse edizioni), e sono stati staccati un milione di biglietti. Il Canada, unico paese che si è presentato per ospitare i mondiali (c’era anche lo Zimbabwe ma si è ritirato), stima un impatto di 263 milioni di dollari come effetto-Mondiali.
E finalmente il calcio femminile è sbarcato anche su Fifa16, il popolare videogioco calcistico che finora lo aveva del tutto ignorato. Chissà che gli uomini (e le donne) del business non fiutino l’affare prima dei dirigenti degli organi federali del calcio. A proposito, da noi la composizione di genere di questi consessi è totalmente, al 100 per cento, maschile.
La battaglia per i soldi va di pari passo con quella contro gli stereotipi. Che si combatte anche, e bene, a colpi d’ironia. C’è un resoconto in italiano del divertente video fatto dalle atlete norvegesi contro i luoghi comuni più diffusi. Stefania Bianchini, campionessa mondiale di boxe e kickboxing, ha raccontato nel suo libro La combattente quanto pregiudizi e stereotipi abbiano danneggiato la stessa pratica sportiva, a partire dai colpi che erano concessi o proibiti nel combattimento. E poi pesa il modo di raccontare lo sport femminile: la battaglia contro gli stereotipi costruiti da chi scrive e parla di sport ha anche un blog apposito, Un certo genere di sport. In questo senso, Belloli è stato involontario sponsor del calcio femminile, sollevando una rivolta generalizzata.
A partire dalle stesse atlete italiane. In un’intervista rilasciata al Corriere, Martina Rosucci, numero 10 della nostra nazionale, tra la difesa appassionata del suo sport e l’attacco al ‘moralismo bigotto’ risolve così gli sconcertanti giudizi estetici del tipo le calciatrici sono tutte brutte: “E Chiellini è bello?”.
Fonte: in genere
6 luglio 2015