La ricerca svolta per conto dell’associazione «Abiti puliti» e condotta con Davide Bubbico e Veronica Redini in tre aree di Veneto, Toscana e Campania ha cercato di rischiarare le trasformazioni nelle condizioni di lavoro nel cosiddetto sistema moda che, per quanto dimagrito, conta ancora complessivamente circa 500 mila addetti
di Devi Sacchetto
Cinque giorni dopo che lo stilista di punta ha finito di disegnare in qualche atelier parigino i nuovi modelli di Louis Vuitton, a Fiesso d’Artico (Venezia) si cominciano a produrre i prototipi che continueranno a fare la spola con la capitale francese su un aereo privato finché il campione non sarà pronto per entrare in produzione. La narrazione delle merci volanti, essenziale nella costruzione dell’immaginario del lusso esclusivo, oscura il lavoro che corre lungo tutta la filiera. La ricerca svolta per conto dell’associazione «Abiti puliti» e condotta con Davide Bubbico e Veronica Redini in tre aree di Veneto, Toscana e Campania ha cercato di rischiarare le trasformazioni nelle condizioni di lavoro nel cosiddetto sistema moda che, per quanto dimagrito, conta ancora complessivamente circa 500 mila addetti con una concentrazione in un pugno di regioni: Veneto, Toscana e Marche per le calzature e la pelletteria, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per l’abbigliamento. In Campania, che pure non è tra le regioni centrali per i due settori, permangono realtà produttive importanti, soprattutto nell’abbigliamento, con una forte incidenza di lavoro irregolare.
Negli ultimi dieci anni le filiere dell’abbigliamento e delle calzature hanno subito un profondo processo di riorganizzazione produttiva che è stato accelerato dalla crisi economica. Un ruolo chiave è stato assunto dai grandi gruppi internazionali detentori di brand grazie alle possibilità finanziarie di investimento sulla produzione e di gestione dei canali distributivi. Molti dei marchi del lusso globali da Louis Vuitton ad Armani, da Prada a Gucci hanno concentrato una parte importante della loro produzione manifatturiera in Italia perché una manodopera con buone capacità sia manifatturiere sia di gestione dei flussi produttivi esternalizzati in Italia e all’estero può essere impiegata con costi assai contenuti.
Ovviamente, le loro catene di fornitura non si fermano negli italici confini, continuando a produrre parti o interi cicli di produzione all’estero. Vero è che negli ultimi anni si registrano anche alcuni rientri delle produzioni delocalizzate all’estero – nuovamente internalizzate o esternalizzate in loco. Il cosiddetto back-reshoring è una conseguenza di diversi fenomeni, dai cambiamenti nei differenziali dei livelli salariali (bloccati in Italia e in crescita in altri paesi, ad esempio in Cina) ai consistenti margini di profitto delle imprese del lusso. D’altra parte, le necessità di una maggiore flessibilità e rapidità e di una «qualità» garantita dal marchio «Made in Italy», possono oggi trovare soluzione grazie al permanere di reti produttive di piccole imprese che operano in situazioni legislative «grigie». Come spiega un esperto di marketing: «molte produzioni che alcuni facevano fuori, tendenzialmente le riportano dentro. Intanto perché la Cina si è alzata a livelli di prezzi quindi quei differenziali non ce li hai più… Poi il made in China, se ti beccano, due palle!… non ha molto senso per un prodotto su cui hai margini incredibili, rischiare che il marchio si sputtani».
Alla luce del classico meccanismo di oscuramento del lavoro materiale e del cospicuo investimento sulle componenti immateriali della produzione si comprende perché sia largamente diffusa l’ideologia stigmatizzante che rende l’aggettivo «cinese» sinonimo di lavoro di scarsa qualità e irregolarità. Una dinamica che, tanto nella produzione quanto nel consumo, va a tutto vantaggio dei committenti, i quali, tuttavia, non hanno remore nell’usare l’imprenditoria cinese in Italia come metro di comparazione per stabilire i costi, come ci racconta un funzionario sindacale: «gli imprenditori cinesi si lamentavano di questo razzismo intrinseco delle imprese italiane perché quando parlavano con gli imprenditori italiani questi gli dicevano: “questa è la tariffa che pago. Poi quando gli italiani capivano che sono cinese mi dicevano, no, aspetta, è la metà”». Il ruolo delle imprese gestite da imprenditori cinesi che occupano esclusivamente connazionali è rilevante nelle tre regioni: essi lavorano prevalentemente nel sub-appalto per il pronto moda, ma anche per le griffe, direttamente o indirettamente. Ma in alcune aree, come quella pratese e in parte campana, si ritrovano imprese cinesi che sono uscite dal loro tradizionale ruolo di terziste per espandersi nel settore del pronto-moda assumendo il controllo di tutte le fasi della produzione e della distribuzione configurandosi come un vero e proprio distretto parallelo. È stata soprattutto questa nuova strategia di autonomizzazione a mettere in allarme parte del mondo imprenditoriale italiano che ha iniziato a strillare contro la concorrenza delle imprese cinesi.
L’aura di esclusività che circonda il business del lusso è costruita attraverso una strategia che mira a produrre merci incomparabili, fabbricate da artigiani talentuosi che hanno appreso il loro lavoro nel corso di lunghi anni di apprendistato. Dal Veneto alla Campania le griffe diffondono una retorica secondo la quale i lavoratori producono opere d’arte grazie alle loro capacità manuali, come racconta un manager di una delle imprese italiane più importanti che opera nella Riviera del Brenta: «possiamo produrre determinati tipi di calzature solo grazie ad artigiani assunti come operai che, grazie a un processo di formazione estremamente lungo, conoscono le pelli e le attrezzature e sanno come certe operazioni di costruzione della calzatura vanno effettuate». In realtà la manodopera non dispone sempre di particolari capacità professionali, mentre una parte consistente della produzione o alcune lavorazioni vengono esternalizzate.
La presenza dei grandi brand ha senza dubbio garantito ad alcune aree produttive di «reggere» durante il periodo di crisi economica, ma ha accentuato il carattere gerarchico e piramidale delle reti di fornitura in Italia e all’estero. Questa rete di relazioni sbilanciate, dalla tendenza dei committenti al continuo incremento dei profitti, si ripercuote con intensità sulle condizioni dei lavoratori italiani e stranieri.
In Veneto e in Toscana, dove le griffe hanno aperto propri stabilimenti, il processo di concentrazione del personale è più evidente. In Campania, invece, le aziende di maggiori dimensioni sono legate all’alta sartoria, mentre permangono medie imprese del pronto moda e un sistema ancora esteso, anche se ridimensionato, di piccole imprese contoterziste, spesso collocate su livelli diversi di irregolarità nell’impiego della manodopera. Le piccole imprese, in particolare in Campania, sono sovente instabili e vengono gestite da imprenditori che spesso si sono fatti da sé e che in modo efficace un operaio definisce «o’ megl’ ten’ ’a zella» (quello che sta meglio, ha la rabbia). Esse possono lavorare per conto di grandi marchi, ma anche, talvolta contemporaneamente, nel settore della contraffazione. Qui il lavoro nero coesiste con il lavoro grigio e con quello regolare all’interno della stessa azienda.
A fare le spese della diffusione del ciclo di lusso sono state prevalentemente le piccole imprese artigiane, in grado di realizzare un prodotto di qualità ma incapaci di imporsi autonomamente sui mercati esteri. Come ci racconta un piccolo imprenditore: «chi resiste è perché esporta in paesi in cui lo status symbol del brand funziona… le aziende di mezzo che fanno un prodotto a marchio loro che non è il brand sono quelle che non ce la fanno perché oggi quello spazio di mezzo non esiste più».
Se in generale le condizioni di lavoro migliori si riscontrano in Toscana e le peggiori in Campania, tuttavia esse sono molto diversificate, poiché sono connesse al tipo di produzione e alla casella occupata nella catena del valore (imprese committenti o subfornitori), alla dimensione dell’azienda e alla presenza o meno del sindacato. D’altra parte in alcune aree delle tre regioni è ancora presente il lavoro a domicilio più o meno regolare.
I tempi delle mansioni si sono compressi e il ritmo è determinato dagli obiettivi di produzione giornaliera, sebbene non si tratti di un vero e proprio cottimo. La presenza delle griffe ha accelerato l’«industrializzazione» dei processi produttivi con un’accentuazione della divisione del lavoro e una decisa standardizzazione delle operazioni, ispirandosi al sistema toyotista secondo l’ideologia del «miglioramento continuo». Ma è evidente che si tratta di una discontinuità nella strategia del lusso a favore di elementi più attenti alla moda e alla velocità di innovazione nello stile che alla qualità. Nelle aziende di minori dimensioni la divisione del lavoro invece si affievolisce anche perché molti lavoratori provengono da un lungo apprendistato professionale che ha permesso loro di acquisire competenze diverse.
La composizione della forza lavoro si è modificata e alle tradizionali maestranze italiane, costituite da uomini e soprattutto donne, si è affiancata nel corso degli ultimi vent’anni la presenza di lavoratori migranti, circa il 15% degli occupati complessivi. La spina dorsale su cui si reggono i due settori è costituita da manodopera proveniente dalle classi meno abbienti e con scarsi livelli di istruzione, con una lunga esperienza nel settore. Coloro che dispongono di un contratto regolare sono assunti molto spesso a tempo indeterminato, per quanto anche in questi settori siano ormai presenti molti contratti precari. In Campania, dove maggiore è la precarietà, l’inserimento al lavoro avviene in giovane età, talvolta senza aver neppure completato gli obblighi scolastici, e in nero.
La divisione del lavoro all’interno delle imprese è quasi sempre piuttosto netta tra donne e migranti – in posizione subalterna che svolgono le mansioni più ripetitive e banalizzate – e gli uomini – collocati nelle postazioni professionali più prestigiose. Tuttavia, le nuove professionalità necessarie alle griffe permettono talvolta una rottura del tradizionale modello sessuato di divisione del lavoro. La maggior parte delle aziende, indipendentemente dalla dimensione, svolge la sua attività nel cosiddetto turno giornaliero (8-17), con una pausa di un’ora intorno a mezzogiorno, mentre le altre pause di lavoro non sempre sono definite. Le ampie possibilità di flessibilità oraria, garantite dal contratto collettivo, sono fondamentali per le imprese che possono così coniugare le loro necessità produttive con un basso esborso monetario. Le ore di flessibilità o il ricorso allo straordinario sono svolte solitamente a fine turno per una o due ore o il sabato mattina. Il rischio di infortuni e condizioni di nocività sono oggi ancora presenti, in particolare nelle imprese del contoterzismo e nel lavoro a domicilio campano. Si tratta di produzioni che espongono le maestranze a svariati agenti chimici che possono inquinare l’aria sotto forma di gas e vapori o di particelle aerodisperse connesse all’uso di adesivi attivatori e diluenti o all’uso di prodotti di finitura.
L’ingresso delle griffe ha prodotto una divaricazione delle retribuzioni: da un lato nel distretto di Scandicci (FI) i salari si attestano sui 1.500 euro netti al mese per un primo impiego e intorno ai 3.000 per una mansione qualificata, dall’altro lato nei laboratori campani dove viene applicato il cottimo si possono anche non superare gli 800 euro mensili. Le griffe infatti garantiscono anche premi o voci accessorie del salario che lo rendono più elevato rispetto ai salari medi delle altre imprese.
Per operaie e operai i salari rimangano comunque solitamente assai modesti, dai 1100 ai 1300 euro mensili. Le differenze maggiori riguardano mansioni come quella del montaggio o dei modellisti nelle calzature, che permettono di arrivare a circa 2.000 euro, o di figure quali i gestori di catene produttive e del controllo qualità esterno che possono spuntare anche fino a 2.500-3.000 euro mensili. I salari maschili sono più elevati per il tipo di mansione a loro riservato percependo sovente superminimi, mentre i lavoratori stranieri occupati nelle piccole imprese stanno all’estremo opposto sebbene una parte consistente di essi abbia ormai sviluppato buone capacità professionali e anche una discreta anzianità.
In Campania i salari rimangono particolarmente compressi sia perché in molti casi essi sono frutto di condizioni di lavoro irregolare e a cottimo sia perché la forza lavoro viene inquadrata nei più bassi livelli contrattuali, indipendentemente dalla professionalità. Il salario è comunque sovente inferiore a quello contrattuale, come spiega un operaio casertano: «il salario effettivamente percepito non è mai quello dichiarato in busta paga, perché o è inferiore perché ne devi restituire una parte al padrone, o è superiore, ad esempio se sei assunto part-time ma lavori otto ore oppure quando gli straordinari o l’una tantum sono retribuiti fuori busta». Per i lavoratori irregolari in Campania le retribuzioni sono molto variabili per quanto fissate generalmente su base giornaliera: dai 35 ai 40 euro. Ma, come emerso dalle cronache, nell’hinterland a nord di Napoli,lavoratori migranti bangladeshi e pakistani a cui era stato ritirato il passaporto lavoravano anche fino a 14 ore al giorno per sei giorni la settimana per salari di circa 3 euro all’ora.
Lo sfrangiamento dei livelli salariali è comune a tutta la penisola e non è solo connesso alle imprese gestite da imprenditori cinesi o al lavoro nero, perché quanto sembra emergere è la compresenza di lavoro regolare e irregolare. Come afferma un’operaia toscana: «si stanno cinesizzando, i rapporti, perché in questa fase di crisi, la gente in qualche modo si arrangia, se è disoccupata lavora al nero. Ci sono stati dei lavoratori a cui proponevano di lavorare a 2-3 euro l’ora, italiane eh!… Poi magari sono in cassa integrazione a zero ore e vanno a nero da un’altra parte… con la cassa integrazione prendono 4 euro e gliene danno altri 4 a nero».
Le situazioni di irregolarità sono presenti soprattutto nelle imprese contoterziste sottoposte alle pressioni dei committenti e alla competizione delle altre piccole imprese. Come ci racconta un operaio napoletano: «con l’inizio della crisi nel 2008 l’azienda ha ridotto il ricorso al lavoro a domicilio e ha esternalizzato il lavoro di orlatura ai cinesi. Se le donne a domicilio erano pagate 1,50 euro al paio, i cinesi hanno abbassato il costo a 1,20 euro e tra l’altro essendo di più, senza limiti di orario e con macchinari più nuovi questi hanno dimostrato una capacità di lavoro di gran lunga maggiore».
L’abbigliamento e le calzature sono settori storicamente meno sindacalizzati rispetto ad altri comparti manifatturieri e dove è più visibile lo sfilacciamento nei rapporti tra lavoratori e sindacato. Se si fa eccezione per le grandi aziende, in cui i delegati rimangono abbastanza presenti, il contatto con le organizzazioni sindacali arriva spesso solo nei momenti di emergenza, per mancati pagamenti, infortuni, accesso ai diversi ammortizzatori sociali. Le responsabilità del sindacato nella solitudine operaia è riconosciuta perfino da alcuni sindacalisti: «è da anni che siamo tutti coinvolti in questa mal gestione, in questa anomalia comportamentale. Forse ci vedono troppo vicini all’azienda, cioè vedono un rapporto, una promiscuità fra azienda-sindacato-lavoratori che giustamente confonde il lavoratore, e io lo comprendo se dice che va da un legale perché dice “ma io ho visto il sindacalista e l’imprenditore che erano a prendere il caffè insieme”… Dobbiamo trovare la giusta collocazione: le relazioni industriali non possono essere per ovvi motivi come quarant’anni fa, però non possono essere un ibrido come sono adesso».
Ma il rapporto tra sindacati e lavoratori è attraversato anche dalla nuova composizione della forza lavoro. Qualche settimana fa, un funzionario sindacale veneziano, dichiarava a un quotidiano locale che gli imprenditori calzaturieri locali dopo i lauti profitti del 2014 dovrebbero assumere prima di tutto gli italiani perché gli stranieri sono dei disperati facilmente ricattabili. La ‘nuova’ composizione della forza lavoro che attraversa i rapporti tra sindacati e lavoratori evidenzia la crisi di un sindacato che pensa di poter rappresentare il lavoratore migrante dentro a un rapporto di potere che è nuovo proprio perché è la somma di forme di dominio già viste. Mai come in questo momento questa incapacità, ormai consolidata, rischia di rendere quel rapporto di potere un dominio ordinario.
Fonte: Sconnesioniprecarie
26 febbraio 2015