La città contemporanea e i cittadini che la pensano e la vivono sono succubi della logica automobilistica: fermiamoci a riflettere su alcuni portati della cultura razionalista novecentesca, e ad alcuni sviluppi perversi della separazione fra ambiti e funzioni diverse
C’è gente che proprio non vuole capire certe regole del vivere civile: quando è rosso ti fermi, quando c’è il verde passi, ci vuole tanto a ficcarselo in testa? Questo in buona sostanza il tono dominante delle reazioni, ancora assai vive, all’incidente stradale di Milano che ha coinvolto una mamma e due bambini, falciati in centro alla carreggiata in una maledetta sera di pioggia. Lasciamo qui perdere, deliberatamente, tutti i commenti della pancia sociale scatenati sui social network, che si riassumono eufemisticamente in: la poveraccia era un’immigrata da poco, non aveva evidentemente chiari alcuni comportamenti che a noi cittadini metropolitani vengono spontanei.
Chi mai si metterebbe ad attraversare la strada in quel modo, quando c’è un comodo sottopassaggio? Pare più o meno il pensiero di tutti quelli che pensano qualcosa a riguardo. Colpisce però che anche i sedicenti esperti e operatori di settore, intervistati dalla stampa, non si discostino gran che da una posizione del genere, nel senso di girare in tondo attorno a cose quali i limiti di velocità, i semafori, le strisce pedonali, i sottopassaggi ecc. Perché, magari si chiederà qualcuno adesso, cosa c’è ancora? Cosa manca dall’equazione? Facile: nell’incidente sono stati coinvolti direttamente quattro cittadini, e nell’equazione manca lei, la città. Ne ho ritagliato un pezzettino da Google Earth, che provo a descrivere di seguito.
Quello che si vede nella prospettiva dall’alto che ho provato a inquadrare, è il quartiere che fabbrica massacri così, perché pare costruito apposta per fabbricarli. Ho aggiustato un po’ l’inquadratura per mettere in risalto certi elementi: lo svincolo su tre livelli, la bretella autostradale che lo alimenta (l’asse sud-nord che qui vedete in orizzontale), la circonvallazione esterna di Milano nel tratto iniziale in senso orario fra Naviglio Pavese e Naviglio Grande, che dallo svincolo puntando in alto verso sinistra è denominata via Famagosta. Toponimi a parte, come credo capiscano in molti, potemmo essere in una città qualsiasi, perché in qualsiasi città sull’arco dell’ultimi secolo urbanisti e amministratori hanno perseguito in varia misura e forme specifiche quel modello di sviluppo.
In buona sostanza, si tratta dell’ideale razionalista tradotto in realtà: a ogni spazio una funzione, una rete di circolazione gerarchizzata, e gli interfaccia gestiti con strumenti tecnici, di cui i più comuni sono sovrappassi, sottopassi, incroci a livello semaforizzati. Una macchina perfetta, che magari funzionerebbe benissimo se contenesse altre macchine perfette. Purtroppo contiene noialtri, imperfetto coacervo composto sia di impeccabili ragionieri comportamentali consapevoli delle regole, che povere mamme immigrate ignare di questa attitudine razionale-blasé.
E se invece avessero ragione proprio i cosiddetti ignari delle regole? Se fossero loro, forma estrema di imperfezione meccanica, bambini, immigrati recenti, popolazioni marginali in genere, a fare da cartina di tornasole degli errori macroscopici in cui ci siamo cacciati fino all’inverosimile, al punto di non vederli più? E anzi, a considerare errori noi stessi, quando invece non esprimiamo altro che un anelito a vivere la città in modo coerente? Riguardiamo l’immagine: non si intravede una città inutilmente squartata da un paio di rigacce che paiono cascate lì dalla squadra di un disegnatore sadico?
Via Famagosta, con le sue sei corsie, e i tre soli punti di attraversamento, è stata artificiosamente allargata sulla spinta teorica dello svincolo, il quale a sua volta esiste perché smista il traffico sparato lì direttamente dall’anello autostradale. C’è un altro grosso settore urbano, quello sulla sinistra dello svincolo, inghiottito dal vistoso parcheggio di corrispondenza multi-livello, e relative corsie di avvicinamento. In buona sostanza a ridosso del centro città, con la solita scusa di “facilitare la circolazione” si è lasciato incistare un automobilistan rigido ed escludente, che non solo sottrae superfici enormi all’abitabilità, ma tende ad allargare all’infinito la propria sfera di influenza. Del resto su scala minore lo sanno benissimo tutti coloro che hanno avuto a che fare con gli autosilos in centro: lungi dall’eliminare il problema sosta, producono nuova congestione che chiede nuovi spazi … ad libitum.
Dal punto di vista concettuale, è la segregazione funzionale che ha raggiunto vette sublimi, trasformandosi in una sorta di cessione di sovranità, di servitù militare dell’automobile (di solito giustificata dalla nostra sicurezza). Accade da molti decenni, e come ho già scritto parecchie volte anche le formalizzazioni della neighborhood unit contemporanea (che nella zona di via Famagosta vede ad esempio una sua impeccabile applicazione coerente nel quartiere San’Ambrogio, che si intravede a sinistra nell’immagine) accettano la grande arteria come margine di definizione del proprio territorio di competenza.
Ma questa apparente applicazione in positivo delle formazioni spaziali (margini, nodi, quartieri, percorsi) definite da Kevin Lynch, nasconde ancora una cessione di sovranità: tutto equilibrato dentro al quartiere, ma poi ogni cosa si arresta ai sacri confini, gli ormai classici terrapieni a verde che immettono nel sovrappasso o svincolo o che altro. Insomma, mai come oggi salta all’occhio quanto l’aggettivo organico, sparso a piene mani per decenni dalla critica a connotare l’approccio ad architetture ed altri spazi urbani, altro non sia che non una sovrastruttura ideologica a una concezione tradizionalmente meccanica della città.
E tutto, concettualmente, inizia proprio con quella benintenzionata idea di separare e specializzare gli spazi. Forse non è un caso che il primissimo modello di baraccone insediativo in stile automobilistan si debba a un avvocato, e non a un ingegnere o architetto. Ma di avvocato sperimentatamente abilissimo a difendere l’idea di proprietà privata e la concezione meccanica di città che questa si porta dietro: Edward Murray Bassett, estensore della prima famosa ordinanza di zoning esclusionista adottata da New York nel 1916, nonché ideatore di un meno noto ma altrettanto significativo freeway business center, negli anni ’30 delle prime arterie veloci urbane a molte corsie. Gli storici dell’architettura collocano questo aggeggio fra gli antenati del centro commerciale contemporaneo, per la sua capacità di proporre negozi servizi e parcheggi in forma integrata, facendo in sostanza evolvere l’ambiente della pompa di benzina.
Io, da italiano, ci vedo anche l’antenato del nostro cosiddetto Autogrill a ponte, quella caratteristica struttura a cavallo dell’autostrada che unisce un nulla a un altro nulla. Ecco, l’impressione è che proseguendo concettualmente sulla strada della “gestione del traffico” e della cessione di sovranità da parte dell’urbanistica, finiremo per rinunciare in modo definitivo alla città, trasformandola in una specie di grande Autogrill, a carico del contribuente. Altro che povera immigrata che non conosce le regole del vivere moderno.
postilla
Osservazioni giuste. Il fatto è che la città che conosciamo non è quella dei modelli proposti dagli urbanisti, ma quella costruita da tre attori fondamentali: la cattiva amministrazione, gli architetti vanitosi e la rendita fondiaria. Basterebbe confrontare tra loro alcune immagini per comprendere che la colpa non è degli urbanisti che hanno introdotto la razionalità e il funzionalismo nei modelli di città proposti a chi doveva costruirla, ma di quei tre attori. Suggerisco alcuni confronti illuminanti. La Barcellona disegnata da Ildefonso Cerda (i grandi isolati di 100 metri per lato, edificati solo sui lati e sistemati a verde all’interno) e quella di oggi (i quadrati quasi interamente riempiti da edifici). Oppure i disegni in cui Le Corbusier illustra la sua Ville Radieuse (pochi grandi edifici disseminati un un’ampia regione urbana dominata dal verde) e la rappresentazione del pezzo di Milano illustrata da Bottini. E basterebbe visitare, forse ancora oggi, i grandi quartieri di edilizia popolare progettati da Bruno Taut e realizzati dalle amministrazioni socialdemocratiche delle città tedesche prima del Nazismo, per rendersi conto che, accanto alla visione di città e al suo progetto, occorre anche una buona struttura tecnica, una buona politica e architetti che ricordino che prima dell’oggetto che loro disegneranno viene la città. Dimenticare il legame tra razionalità del disegno, subordinazione della proprietà immobiliare agli interessi comuni, e qualità dell’amministrazione pubblica, conduce alla città devastata che provoca il disagio dei suoi abitanti, soprattutto dei gruppi più deboli. Sembra che anche molti urbanisti lo abbiano dimenticato, a partire dall’Inu; la politica, e gran parte dell’intellettualità, sembra che non l’abbiano nemmeno mai saputo (e.s.)
Fonte: Eddyburg
30 ottobre 2013