“Chi come me è nato nei primi anni 80 ha respirato il terrore fin da piccolo. Non lo avevamo ancora visto, ma c’era nelle conversazioni sussurrate degli adulti, nei giornali che giravano in casa”, racconta in quest’articolo Marta Serafini, giornalista e scrittrice. Lo pubblico volentieri poichè ci aiuta a capire pagine importanti della Storia che abbiamo vissuto e stiamo vivendo.
Il 2 agosto 1980 ero troppo piccola per rammentarne anche solo un frammento. Ma uno dei primi ricordi che ho impressi nella memoria è mia madre che mi prepara da mangiare mentre guardo i cartoni animati in cucina. Quel flash di lei che armeggia mentre io sto seduta facendo girare una mela nel piatto è interrotto dalle immagini di un telegiornale in cui si parla dell’esplosione di un treno sull’Appennino.
Era il 24 dicembre 1984 e di sicuro in quel periodo i miei pensieri erano tutti focalizzati sulla lista dei regali che avevo chiesto per Natale. Eppure, per un attimo, il mio sguardo era stato attratto dalle immagini che passavano sul televisione arancione Brionvega che avevamo in cucina. Esattamente 24 ore prima 17 persone erano morte dilaniate da una carica di esplosivo radiocomandata, piazzata su una griglia portabagagli del corridoio della 9ª carrozza di II classe. Qualcuno era salito sul treno durante la sosta alla stazione di Firenze Santa Maria Novella e aveva piazzato una bomba. Era la strage del Rapido 904.
Allora le Brigate Rosse e Prima Linea stavano rallentando le loro azioni, la tensione stava calando. Ma il terrorismo era come un’ombra che aleggiava già allora sulle nostre vite. Chi come me è nato nei primi anni 80 ha respirato il terrore fin da piccolo. Non lo avevamo ancora visto, ma c’era nelle conversazioni sussurrate degli adulti, nei giornali che giravano in casa.
E’ stato con la morte di Falcone e Borsellino e con la strage di via Palestro che abbiamo preso coscienza di che cos’era il terrorismo. Ancora oggi nella mia libreria c’è un libretto verde, scritto dalla giornalista francese Marcelle Padovani. La prima volta l’ho letto nel ‘94. Ricordo, sfogliando le pagine, il senso di rabbia e di impotenza che provavo di fronte a due uomini giusti uccisi perché la smettessero di fare il loro lavoro. Tuttavia mi tormentava anche un pensiero. Se Falcone e Borsellino sapevano di essere minacciati, perché nessuno è riuscito a prevedere e prevenire quegli attacchi? Questa volta era la mafia a farsi beffe dello stato massacrando l’Italia con chili di tritolo.
Al liceo, in tanti ci siamo appassionati alla storia dell’Ira e dell’Irlanda. La lettura dei diari di Bobby Sands era una tappa quasi obbligata. In qualche modo ancora una parte di noi vedeva nella lotta armata un mezzo di ribellione, di lotta che poteva cambiare il percorso della storia. Anche l’America Latina e i suoi ultimi sussulti di marxismo suscitavano simpatia negli ambienti di sinistra.
Poi, l’11 settembre. Il terrorismo ora veniva dal Medio Oriente. Guardando con mio padre le immagini dei corpi che volavano nel vuoto, di nuovo provai rabbia. «Ma possibile che nessuno abbia fatto niente per fermarli?», gli chiesi. È stato in quel momento che ho deciso di specializzarmi in Relazioni Internazionali. È stato allora che ho deciso che in qualche modo la mia vita sarebbe stata dedicata alla ricerca di una risposta. Ricordo che durante una lezione alla Statale iniziammo a discutere tra noi studenti delle responsabilità occidentali sull’accaduto. Eravamo tutti arrabbiati, in fondo — dicevamo — è stata anche colpa nostra. Molti prendevano le distanze, alcuni andavano alla ricerca di responsabilità politiche. Altri ancora cercavano di trovare conforto nella rabbia e nel disprezzo per i musulmani. Il professore di allora ci invitò a non farci prendere dall’emotività e a ragionare in una prospettiva più analitica.
Da allora ho cercato di studiare il più possibile e leggere. Tecniche, procedure, effetti sui civili. Testi di esperti, convegni, lezioni, atti parlamentari. Ma ancora oggi quando mi capita di partecipare a qualche dibattito, se qualcuno chiede “ce la siamo cercata?” provo un senso di disagio estremo. Da un lato credo di sì perché se non siamo stati in grado di prevenire tragedie simili significa che abbiamo fallito. Dall’altro sono convinta di no perché i terroristi colpiscono sapendo molto bene di alimentare le spaccature all’interno della nostra società. E allora non voglio cadere nella loro trappola.
Dopo che l’estate scorsa ho intervistato Maria Giulia Sergio, una ragazza italiana che ha deciso di unirsi a Isis, in tanti mi hanno detto: “Quella è una pazza”. In realtà studiando anche altri profili di foreign fighters e di giovani reclute mi sono definitivamente convinta che non possiamo bollare kamikaze e terroristi come pazzi. Maria Giulia probabilmente non ha mai ucciso nessuno né mai lo farà. Ma è pericolosa. Ne ho discusso anche con magistrati, esperti, inquirenti. Il terrorismo non ha per nulla abbandonato la mia generazione. L’idea di lotta armata nemmeno.
In questi ultimi tre anni molti giovani sono partiti dall’Europa. Alcuni, soprattutto le ragazze, sono spinti dall’idea romantica di trovare una vita migliore o di diventare celebri. Altri sono spinti dalla rabbia per le ingiustizie e le frustrazioni della crisi. Ma non bisogna fare l’errore di pensare che si siano uniti solo all’Isis. Le sigle sono tante e i soggetti che li reclutano pure. Giuliano Delnevo si era convertito e soffriva per le ingiustizie sulla Siria. Anas El Abboubi voleva fare il rapper e diceva che la vita nella sua valle non era in fondo poi così male. Alice Brignoli prima di partire per la Siria con i due bambini ha tagliato i rapporti con la madre Fabienne che ora si dispera. Questi ragazzi sono finiti all’inferno. E una volta arrivati lì magari hanno anche ucciso, torturato stuprato. Ma prima di cadere nella trappola non erano dei mostri. Di esempi ce ne anche sull’altro fronte, quello curdo, come è il caso di Karim Franceschi, bello, giovane, quasi un poster di Che Guevare. E’ stato a combattere a Kobane, ha scritto un libro e ora le ragazzine sospirano guardando la sua foto.
Può sembrare assurdo che le ideologie o gli estremismi esercitino ancora un fascino sui più giovani. Ma è ancora così. Discutendo con delle studentesse del Liceo Beccaria di Milano, mi sono trovata davanti ragazze molto più consapevoli di quanto fossi io alla loro età. Erano preparate, prima di incontrarmi avevano letto e guardato dei filmati su YouTube su Isis, sulle cause della guerra in Siria. Ma di nuovo, dopo che avevo raccontato loro degli orrori degli stupri commessi da Isis contro le donne yazide e di come Isis usi la propaganda per manipolare le menti delle ragazze, è tornata fuori la domanda: “Allora è colpa nostra?”.
Anche in quell’occasione ho faticato a dare una risposta. Una parte di me si sente in colpa. Lavorando sulla radicalizzazione dei giovani, so bene quanto la discriminazione contro i musulmani e la crisi giochino a favore dei reclutatori jihadisti. “Prova tu ad andare a cercare una casa in affitto con un velo in testa”, mi ha detto una giovane convertita italiana che ho intervistato. Una parte di me però sa bene come di fronte al terrorismo non si possa vacillare e non si possa lasciare spazio alle interpretazioni.
Soprattutto ora che lo sentiamo sempre più vicino.