Il dibattito sulle Politiche di genere non conosce tregua. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Monica Pasquino*
Mentre le deputate erano costrette a raccogliere firme per ripristinare la parità di genere nella legge elettorale sfidando Berlusconi e Renzi, la morale vittoriana e sessuofoba che associava negatività, senso di colpa e vergogna alla sessualità è tornata in auge.
Sembrano lontani i tempi del puritanesimo, eppure sono attuali in diverse parti del mondo e sprazzi di quell’universo culturale si fanno sentire anche in Italia, come dimostrano fatti recenti.
Nelle ultime settimane la Chiesa cattolica ha gettato fango su quella che ha erroneamente ribattezzato “l’ideologia del gender” che minaccerebbe le nuove generazioni piuttosto che prevenire discriminazioni e violenze.
Vicariato e testate giornalistiche conservatrici e vicine agli ambienti religiosi hanno preso di mira:
– l’UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali – per i libri destinati agli insegnanti delle scuole primarie, secondarie di primo grado e di secondo grado contro omofobia, bullismo e discriminazione;
– il sindaco Marino per la campagna contro il bullismo omofobico “Lecosecambiano@Roma” lanciata a Roma;
– Camilla Seibezzi, consigliera del Comune di Venezia, che ha acquistato alcuni libri di fiabe contro il razzismo e la discriminazione sessuale da distribuire negli asili e nelle materne comunali;
– l’assessorato alla Scuola della Capitale e l’associazione Scosse per “La scuola fa differenza”, otto corsi formativi rivolti a oltre 200 insegnanti di scuole dell’infanzia e asili nido per contrastare, fin dalla primissima età, le condizioni culturali e sociali che favoriscono la violenza sulle donne, i fenomeni di omofobia e di bullismo, proponendo modelli aperti e plurali di identità, famiglia e genitorialità.
Le descrizioni e le parole usate in questa polemica hanno un peso specifico non indifferente, perché – come alcuni articoli dichiarano – hanno l’obiettivo politico di favorire il mantenimento di ruoli e abitudini tradizionali, contro le derive del femminismo. Sia chiaro però che così facendo contribuiscono a perpetuare le condizioni culturali e sociali che favoriscono la disparità di genere, la violenza sulle donne, i fenomeni di omofobia e di bullismo.
Osservando meticolosamente piccini e adulti, nel 1973, Elena Gianini Belotti, insegnante montessoriana, pubblicò Dalla parte delle bambine, oltre 600mila copie vendute per spiegare come la differenza tra uomini e donne non fosse innata ma frutto di condizionamenti sociali e culturali che provocavano disparità.
Nello stesso anno iniziò il complesso iter concluso negli anni Novanta, che portò l’American Psychiatric Association a cancellare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, definendola “una variante naturale della sessualità umana”.
Sono passati quarant’anni e l’eguaglianza tra donne e uomini è ancora solo formale, ma non materiale.
Facciamo qualche esempio.
Nel nostro Paese lavora il 46 per cento delle donne, spesso impiegate precariamente e con sistemi di tutele inesistenti per casi di maternità e malattia. Studiano di più e ottenendo migliori risultati degli uomini ma poi hanno stipendi inferiori del 20-30 % rispetto a quelli dei colleghi.
Il tetto di cristallo e l’assenza delle donne dai ruoli dirigenziali è una discriminazione che la politica non è ancora riuscita a risolvere.
Le donne escono dal mondo del lavoro a causa della maternità: il tasso di occupazione femminile cala di 5 punti dopo il primo figlio, di 10 dopo il secondo, del 23 dopo il terzo. Le ragioni di questo abbassamento sono molteplici e vanno dalle dimissioni forzate al mobbing alla mancanza di asili nido (coprono l’11,3 % dei nati).
Si potrebbe pensare che stare a casa incentivi il tasso di natalità, ma non è così: la media di disoccupazione femminile italiana è tra le più alte in Europa e il tasso di natalità è tra i più bassi. I pochi bambini/e che nascono sono soprattutto figli di lavoratori subordinati con contratti a tempo indeterminato: mette al mondo un figlio il 19% delle donne con contratto atipico contro il 31% di chi ha un posto fisso (tra i 25 e i 34 anni). Ennesima prova della vacuità del mito della flessibilità, che non riesce a conciliare i tempi di lavoro con quelli dell’allattamento, degli orari di entrata e uscita dalle scuole, delle malattie e delle visite dai pediatri.
Bastano già questi pochi dati per mostrare la portata della disparità che viviamo tutti i giorni nel nostro paese. Una disparità che rende necessarie e urgenti iniziative e misure che favoriscono nelle nuove generazioni l’espressione libera delle emozioni, lo sviluppo di personalità positive e senza preconcetti, per trovare da grandi una realizzazione professionale, per amare e progettare il futuro senza imposizioni.
* Monica Pasquino è presidente dell’Associazione di Promozione Sociale SCOSSE Soluzioni COmunicative, Studi, Servizi Editoriali. www.scosse.org
20 marzo 2014