Lo scrive il New York Times, facendo un po’ di precisazioni e contestualizzando il record di donne elette al prossimo Congresso
Una delle notizie che è circolata di più intorno alle elezioni americane di metà mandato (vinte dai Repubblicani) è che per la prima volta al prossimo Congresso saranno presenti più di cento donne. Si è anche parlato molto di singoli casi: quello di Mia Love, che sarà la prima donna nera Repubblicana alla Camera; quello di Elise Stefanik, trentenne Repubblicana eletta a New York, che sarà la deputata più giovane nella storia della Camera; quello, infine, di Joni Ernst, che ha battuto il senatore Democratico uscente dell’Iowa, Bruce Braley.
Questi esempi sono stati presentati con grande enfasi soprattutto da parte dei Repubblicani, per smontare lo stereotipo del Repubblicano medio (elettore ed eletto) maschio e anche, in una certa misura, maschilista. E si sono aggiunti alla notizia del raggiunto traguardo numerico della presenza di elette: è vero, le votazioni di metà mandato hanno stabilito un record, «ma le donne di entrambe le parti dicono che i numeri sono deludenti». Lo scrive il New York Times, aggiungendo anche vanno fatte delle precisazioni intorno a questi dati prima di festeggiare.
Innanzitutto, precisa il New York Times, gli esempi delle candidate Repubblicane che hanno vinto sono delle eccezioni: la maggior parte delle donne elette restano, come sempre, delle Democratiche. Considerata la loro larga vittoria, quindi i Repubblicani hanno perso una grande occasione di eleggere un numero maggiore di donne del loro partito: il prossimo anno gli uomini continueranno a essere circa il 90 per cento, tra i Repubblicani al Congresso. L’altra precisazione riguarda la stessa misura quantitativa adottata, che in generale andrebbe usata con maggiore attenzione: l’elezione di una donna può facilitare ma non garantire una maggiore sensibilità o impegno sulle cosiddette tematiche di genere. Per esempio: la neo-senatrice dell’Iowa Joni Ernst – quella dello spot in cui dice di essere cresciuta in una fattoria «castrando maiali» e che a Washington sarà pronta a fare lo stesso, in senso metaforico – ha parlato dei feti come di “persone” dicendo che i medici abortisti vanno perseguiti penalmente.
Ci sono da fare delle precisazioni anche sui numeri. C’erano 15 donne in corsa alle elezioni di metà mandato per il Senato: solo quattro di loro hanno vinto. Attualmente ci sono 20 senatrici e l’anno prossimo ce ne saranno ancora 20, a meno che Mary Landrieu, senatrice uscente e candidata Democratica della Louisiana, abbia la meglio al ballottaggio. La sua vittoria è comunque considerata improbabile. Alla Camera ci sono attualmente 79 donne. Nella prossima legislatura il numero varierà tra 81 e 85, secondo l’esito delle elezioni per cui sarà necessario il ballottaggio. Per quanto riguarda i governatori, attualmente le donne sono cinque. La votazione di questa settimana non ha cambiato le cose: Jan Brewer, governatrice uscente dell’Arizona, non si è ricandidata ed è stata sostituita da un uomo; la Democratica Gina Raimondo però è stata eletta nel Rhode Island.
«Le donne non stanno aumentando in modo eccezionale e non di certo nelle cariche elettive ai livelli più alti», ha commentato Olympia Snowe, ex senatrice Repubblicana moderata del Maine. «Stiamo facendo alcuni passi in avanti, ma ovviamente non sono passi da gigante». Alcune candidate Democratiche al Senato date per favorite o alla pari dell’avversario sono state sconfitte: si tratta di Kay Hagan, che ha perso in North Carolina, e di Michelle Nunn, che ha perso in Georgia. Kirsten Gillibrand, senatrice Democratica dello stato di New York, grande sostenitrice e finanziatrice delle candidate Democratiche alle elezioni di quest’anno, ha attribuito la loro sconfitta alla vittoria in generale dei Repubblicani dicendo che in realtà in queste elezioni la differenza di genere ha contato molto poco.
Ci sono però anche ragioni specifiche che interessano direttamente le donne piuttosto che gli uomini in politica. Niente di nuovo: diversi esperti ed esperte intervistate dal New York Times hanno parlato delle maggiori difficoltà che hanno le donne (spesso anche per scelta) di decidere di competere per un incarico politico e, una volta che decidono di farlo, hanno citato la loro maggiore difficoltà a raccogliere fondi per la campagna elettorale (hanno reti meno estese rispetto a quelle degli uomini).
C’è poi un’altra questione e cioè se davvero il sesso di una persona che si impegna in politica sia predominante sul partito di appartenenza: quando cioè ci sono per esempio una candidata Democratica e un candidato Repubblicano, cosa prevale? Il fatto che sia una donna o che sia Democratica? Il fatto che sia un uomo o che sia Repubblicano? Secondo diversi studiosi di comportamenti elettorali e scienze politiche – come per esempio Kathleen Dolan, docente all’Università del Wisconsin, intervistata dal New York Times – la questione del genere passa in secondo piano: «Non c’è quasi nessuna prova che le persone mettano in primo piano il sesso dei candidati». Ma questo, ha fatto notare Kellyanne Conway, stratega Repubblicana, spesso non è vero nella pratica dato che «i media continuano a raccontare le candidate concentrandosi pesantemente proprio sulle loro caratteristiche femminili».
Foto sopra: Joni Ernst, senatrice repubblicana eletta in Iowa (Chip Somodevilla/Getty Images)
Fonte: ilPost
9 novembre 2014