Qual è lo stato dell’occupazione femminile in Italia? Quante donne dovrebbero entrare nel mercato del lavoro per raggiungere gli obiettivi internazionali? Quale lavoro le aspetta? Una fotografia del presente
di Barbara Leda e Kenny Anna Zattoni
Due milioni e settecento mila sono le donne che in Italia dovrebbero entrare nel mercato del lavoro per raggiungere gli obiettivi previsti dall’ultimo G20, svoltosi in Australia nel 2014, che si era posto come traguardo una ripresa economica che vedesse aumentare i Pil ma anche l’occupazione. Il target specifico fissato in quell’occasione per le donne a livello mondiale: farne entrare nel mercato del lavoro 100 milioni in 10 anni. Quello che il gruppo di lavoro Women20 (W20) si propone di fare, è proprio creare una piattaforma di azione comune che consenta il raggiungimento di tale obiettivo.
L’inclusione economica e lavorativa delle donne in Italia
2,7 milioni è anche il numero di occupate che secondo l’Istat consentirebbe all’Italia, attualmente ultima in Europa per tasso di occupazione lavorativa femminile, di allinearsi con la media europea. Il nostro paese, in realtà, è ben lontano dall’obiettivo già fissato dalla strategia di Lisbona, che prevedeva l’impiego del 60% di donne entro il 2010. Un obiettivo che, secondo la Banca d’Italia, avrebbe ricadute positive per tutta la società, facendo crescere il Pil del 7%.
La bassa occupazione delle donne è sintomatica di una condizione generale di disuguaglianza: lo rileva il Gender Equality Index elaborato dall’EIGE (l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere) che vede l’Italia sotto la media europea e il rapporto Global Gender Gap, pubblicato annualmente dal World Economic Forum, che attribuisce all’Italia il 69esimo posto nella classifica mondiale per la parità di genere.
Le cause
In Italia, la struttura economica, l’organizzazione del lavoro, gli stereotipi di genere sono strettamente correlati a quanto lavoro di cura ci si aspetta che venga svolto dalle donne nelle case, al tipo di welfare a cui hanno accesso e alle possibilità che hanno di entrare nel mercato del lavoro.
Le donne italiane sono considerate come le principali referenti e responsabili del lavoro domestico e di cura: secondo Eurostat dedicano alle responsabilità familiari più tempo di tutte le altre donne europee, ben 5 ore e 20 minuti al giorno. Ossia 3 ore e 45 minuti più degli uomini. Questa differenza nell’uso del tempo tra uomini e donne tende a diminuire a mano a mano che il tasso di occupazione cresce: in Svezia per esempio sono solo 73 minuti, poco più di un’ora. Se consideriamo il part-time maschile come un indicatore della partecipazione degli uomini al lavoro domestico i dati vengono confermati: quello italiano è uno dei più bassi d’Europa, l’8,4% contro il 7,8% in Francia, il 10,8% in Germania, il 13,1% in UK e il 15,1% in Svezia (Eurostat 2014). La scarsa partecipazione maschile al lavoro di cura si somma all’inadeguatezza dei servizi preposti: ad esempio il tasso di copertura dei servizi per la prima infanzia (asilo nido) è uno dei più bassi in Europa e risulta inferiore al 13,5% (Istat 2013). Inoltre a causa delle politiche di austerità molti servizi sono stati tagliati: tra questi il tempo pieno a scuola, i servizi di assistenza domiciliare agli anziani, ecc.
Il risultato? Sono ben 2,3 milioni le donne che risultano inattive per motivi di famiglia, di queste il 40% ha un diploma di scuola superiore o un titolo universitario e il 45% vive al sud. Si stima che 270.000 donne inattive non abbiano cercato lavoro a causa dell’inadeguatezza dei servizi di cura forniti a bambini, anziani, malati e disabili (McKinsey Analysis 2012). Il 18% delle donne inattive lavorerebbe se i servizi fossero adeguati (Istat 2013).
In questo contesto non stupisce che per le donne italiane la maternità rappresenti ancora un rischio concreto di fuoriuscita dal mercato del lavoro: il 22,4% delle madri impiegate prima della gravidanza, intervistate dopo due anni, avevano perso il lavoro (Istat 2015).
Quale lavoro
Nonostante la fotografia che ci restituisce il presente non sia rosea e abbia grandi margini di miglioramento, bisogna tener conto che il numero delle italiane al lavoro negli ultimi sessant’anni è cresciuto costantemente e si è arrestato soltanto di fronte alla recente crisi finanziaria.
Le donne italiane desiderano entrare nel mercato del lavoro, e ne è la riprova il superamento degli uomini nell’istruzione: ottengono più e migliori risultati. Secondo il rapporto Almalaurea del 2013 nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, il 30% delle donne ha un una laurea contro il 18% degli uomini. Eppure questo vantaggio non si riflette nel mercato del lavoro: gli stereotipi di genere influenzano le scelte di carriera delle donne che tendono a preferire materie (letteratura, insegnamento, linguistica, geografia, chimica-farmaceutica, legge, architettura) in cui c’è troppa offerta rispetto alla domanda, specialmente se comparate con le materie tecnico-scientifiche in cui si registra una netta prevalenza maschile. Il risultato è che a cinque anni dalla laurea hanno trovato lavoro l’88% dei laureati e solo il 63,5% delle laureate e gli uomini guadagnano 1556 euro contro i 1192 delle donne (Almalaurea 2015).
Il problema per le italiane non è solo entrare nel mercato del lavoro, anche la qualità lavorativa che ottengono è inferiore a quella degli uomini: vengono pagate meno a parità di lavoro (il cosiddettogender pay gap), sono più esposte al part time involontario e alla precarietà (Istat 2015) e fanno meno carriera anche se sono più formate.
Donne e uomini hanno le stesse ambizioni ma nei luoghi di lavoro viene promosso un modello dileadership per cui avere una carriera significa essere presenti “sempre e comunque”, circa il 40% delle donne che si considera “adeguata” per ricoprire un ruolo apicale, sostiene che sia il modello dominante di leadership l’ostacolo principale alla carriera (McKinsey analysis sui dati Istat 2012).
In questo contesto di lenta ma crescente occupazione femminile, di scarsa partecipazione maschile al lavoro di cura e di inadeguatezza e scarsità dei sevizi, di contrapposizione tra la cura e il lavoro, la domanda di lavoro domestico è cresciuta attirando e trattenendo donne migranti, relegandole in un settore considerato poco qualificato e quindi sottopagato. Una donna migrante su due lavora per e nelle famiglie italiane fornendo servizi di cura, rappresentando l’80% della forza lavoro in tale settore, per un totale stimato di 1.554.000 lavoratrici. L’Oecd riporta come le lavoratrici migranti siano maggiormente esposte alla violazione dei diritti e al lavoro nero (Oecd 2014). Recenti dati Istat (2015) illustrano come le donne migranti abbiano una scarsa mobilità sociale e siano spesso troppo qualificate per il lavoro che svolgono.
Segnali incoraggianti
C’è un ambito in cui negli ultimi anni le donne hanno ottenuto progressi importanti ed è la leadershipsia in ambito economico che politico. Per quello che riguarda le donne nell’economia va sottolineato come, grazie alla recente legge sulle quote nei cosigli di amministrazione, che impone di avere almeno il 20% di donne nei consigli di amministrazione delle società pubbliche e private, i dati sono migliorati moltissimo e ad oggi con un 27,3% di donne nei consigli di amministrazione (Consob2015) l’Italia rappresenta un buon esempio a livello europeo in cui la media è del 20%. I dati sono incoraggianti anche quando si guarda al numero dei dirigenti, che ha raggiunto un 29% di presenze femminili contro la media europea del 21% (Openpolis, 2015). Il soffitto di cristallo è crepato ma non infranto: a livello di presidenza dei cda le donne sono solo il 5% e nel ruolo di amministratore delegato nelle società quotate la percentuale scende a zero (Openpolis, 2015). Anche nel settore pubblico le donne hanno più potere decisionale: nei consigli di amministrazione si è passati da un 2% di donne al 24% nel 2014 (European Commission Justice and Consumers 2014)
Negli ultimi anni le donne italiane se la cavano meglio anche in politica: nell’attuale governo le ministre sono il 41% e sia alla Camera che al Senato le donne registrano un inedito 31% di presenze (European Commission Justice and Consumers 2014).
Fonte: In Genere
11 novembre 2015