Sei casi soltanto questa estate, un impressionante elenco di padri che uccidono i figli: l’ultimo è il quarantasettenne Roberto Russo che a San Giovanni La Punta (Catania) ha accoltellato a morte la figlia Laura, 12 anni, e tentato di uccidere la seconda figlia femmina, la quattordicenne Marika. Da qualche giorno la moglie Giovanna Zizzo dormiva a casa dei suoi genitori dopo aver scoperto un tradimento del marito.
di Laura Eduati, L’Huffington Post
Il penultimo è Luca Giustini, un ragazzo di 34 anni senza problemi economici che la madre definisce “depresso” (“piangeva sempre”) e che per gli amici viveva una situazione famigliare infelice (“mi manca l’amore”, diceva). Giustini ha trapassato con un coltello la figlia di un anno e mezzo che dormiva nel lettino: è accaduto domenica 17 agosto in una frazione di Ancona, Collemarino. Rinchiuso nel reparto di psichiatria dell’ospedale Torrette, agli inquirenti ha detto: “Una voce mi ha ordinato di uccidere Alessia”.
Raptus? Secondo Claudio Mencacci, ex presidente della Società italiana di psichiatria, è sbagliato pensare che questi padri di famiglia passino dall’amorevole quiete famigliare all’horror in pochi minuti, come se passasse un tornado di follìa improvvisa nelle loro menti. “Non si considera mai che, guarda caso, quella violenza ha come oggetto i più fragili, i deboli, le persone indifese e quindi le più esposte. Lei ha mai sentito dire di qualcuno colto da raptus che ha assalito un uomo grande e grosso?», ha commentato al Corriere della Sera.
Di raptus non parla nemmeno la criminologa britannica Elizabeth Yardley, che ha appena concluso uno studio apposito sui padri che eliminano i figli – per poi, spesso, suicidarsi. Li ha chiamati “Padri Sterminatori”. Secondo Yardley, il numero degli uomini che commettono questi delitti segue l’aumento delle rotture famigliari – separazioni e divorzi:
Non penso nemmeno per un minuto di affermare che il divorzio porta all’omicidio. Anzi. Eppure, ciò che davvero preoccupa è che esiste una piccola minoranza di uomini che trova impossibile fare i conti con la rottura della loro famiglia. Questi uomini sono di tutti i tipi: medici, imprenditori, elettricisti, camionisti e vigilantes. Ma hanno una cosa in comune: sentono che la loro mascolinità è sotto minaccia. Con il divorzio, credono di perdere l’unica cosa che li fa sentire uomini di successo: le loro famiglie. Uccidendo i propri figli stanno cercando, in maniera perversa, di riottenere il controllo non soltanto sui loro bambini ma anche sulle loro mogli. Assassinare i loro figli è il modo più scioccante e drammatico al quale possono pensare per gridare al mondo: “Guarda quanto sono potente”.
Queste parole sembrano l’esatta didascalia per la scena del crimine avvenuta a Ponte Valleceppi (Perugia) lo scorso 6 luglio, quando Riccardo Bazzurri ha ucciso l’ex Ilaria Abbate e ferito gravemente il figlio di due anni e mezzo. Bazzurri si è poi suicidato, e ora il bambino rimane ricoverato in gravi condizioni all’ospedale Meyer di Firenze. Ilaria raccontava spesso ai famigliari e agli amici che Bazzurri, carrozziere di 32 anni, non accettava la separazione e insisteva per ricominciare una relazione.
Un atto di superomismo potrebbe essere anche quello compiuto da Vito Tronnolone, il sessantacinquenne affetto da problemi di salute – avrebbero voluto ricoverarlo in ospedale ma si era rifiutato categoricamente – che il 9 luglio a San Fele (Potenza) ha massacrato l’intera famiglia a colpi di pistola: la moglie Maria Stella Puntillo, 57, ed i due figli Luca e Chiara, di 32 e 27. Per i vicini Vito temeva che il figlio Luca, disabile rimanesse da solo: ha fatto in modo per evitare questo pericolo.
Per Ben Buchanan, psichiatra canadese del Victorian Counselling and Psychological Services, la maggioranza degli uomini assassina i figli per punire le mamme – cioè le loro compagne: “I nostri bambini rappresentano le nostre mogli, sono la loro rappresentazione simbolica ma sono molto più vulnerabili. Nei casi che ho visto, è raro per gli assassini incolpare i bambini, in quanto sono semplicemente dei sostituti attraverso i quali tentano di arrivare alla madre”. Per farla soffrire.
Anche questa sembra la spiegazione psicologica di uno dei reati più dolorosi degli ultimi anni: il 3 febbraio 2011 Matthias Schepp si è buttato sotto un treno a Cerignola dopo aver scritto una lettera alla ex moglie residente in Svizzera, precisando di avere ucciso le due gemelle di sei anni. Sono passati due anni e mezzo e la madre non è ancora riuscita a capire dove possano trovarsi i corpi delle due figlie, in quello che sembra un estremo e agghiacciante atto di vendetta dell’ex marito contro di lei.
Un delitto simile è avvenuto a Milano nel 2009: Mohammed H. M., 52 anni, accoltella il figlio di dieci anni durante un incontro protetto alla Asl di San Donato Milanese. Il bambino, che era terrorizzato dal padre, muore. E l’uomo si suicida. L’unica superstite è la madre del piccolo, tormentata per anni dall’ex marito di origine egiziana.
Anche solo mettendo in fila i racconti di cronaca nera, sembra una sindrome di Medea che strisciando cambia pelle, passa dalle donne agli uomini, ammazzo i bambini per colpire te che mi hai lasciato. E tuttavia non è sempre così: il delitto che ha inaugurato la macabra serie estiva è quello di Motta Visconti, dove Carlo Lissi ha sgozzato moglie e figli perché voleva sentirsi libero dai legami famigliari, o almeno questo ha raccontato ai magistrati. Si era innamorato di un’altra. La stampa ha scritto che la moglie, Cristina Omes, lo aveva quasi obbligato a sposarla, come a suggerire che in fondo era lei a comandare. Una sottile colpevolizzazione simile a quella operata dalla madre di Giustini, che ha raccontato come la nuora non lasciasse spazio e libertà al figlio. Uomini deboli, incapaci di affermare il loro punto di vista, che sfogano la propria rabbia in un unico violento lampo finale?
Per J. Reid Meloy, psicologo forense americano, i padri arrivano a uccidere dopo un lungo percorso di rabbia, frustrazione e pianificazione. Sono persone con una fragile consapevolezza di se stessi, intolleranti dell’insuccesso e dell’umiliazione. Se non si suicidano, dopo il delitto si sentono meglio. È quello che apparentemente sembra provare Lissi, in caserma durante l’interrogatorio dopo la mattanza: “No, non dà segni particolari di disperazione. È lucido, giusto qualche lacrima, forse più da sfinimento che da reale coscienza del dolore“.
Scelgono armi affilate e tribali, i padri che fanno scomparire i figli dalla faccia della terra: specialmente coltelli con i quali tagliano gole o distruggono corpi addormentati serenamente. Annota la criminologa Yardley: “L’accoltellamento avviene quando l’assassino è colmo di rabbia e vuole fare danno all’aspetto della vittima”.
Fonte: Huffington Post
23 agosto 2014