Il rapporto Brambilla sul sistema previdenziale italiano induce all’ottimismo, a patto che le stime di crescita e inflazione siano corrette. Ma le generazioni più giovani non sono penalizzate tanto nella generosità delle pensioni, quanto dal fatto che le riceveranno per molti meno anni
Nelle ultime settimane si è riacceso il dibattito sulle pensioni. In particolare, sulla disparità di trattamento previdenziale tra diverse tipologie e diverse generazioni di lavoratori.
Il “rapporto Brambilla” sul bilancio del sistema previdenziale italiano, pubblicato da Itinerari Finanziari il 15 aprile, e citato recentemente anche dal ministro Poletti, presenta interessanti elaborazioni sul futuro previdenziale dei lavoratori di oggi. La tabella 10.1 mostra i tassi di sostituzione – ovvero il rapporto tra la prima pensione ottenuta e l’ultimo salario ricevuto prima di andare in pensione – per diverse tipologie di lavoratori, nati tra il 1968 e il 1980, ed entrati nel mercato del lavoro a 24 anni con un reddito di ventimila euro lordi.
Queste stime inducono un certo ottimismo: un lavoratore nato nel 1980 pensionandosi quasi settantenne con 38,7 anni di contributi otterrebbe un tasso di sostituzione lordo del 69,2 per cento, corrispondente a un suntuoso 79,1 per cento al netto delle imposte. Ma l’ottimismo si riduce se si analizzano le ipotesi su cui si fondano le stime: crescita delle retribuzioni individuali attese dell’1,51 per cento, crescita media quinquennale del Pil dell’1,57 per cento reale e inflazione al 2 per cento. Purtroppo, non sono questi i numeri dell’economia italiana. Ad esempio, la crescita media del Pil nell’ultimo quinquennio, a cui vanno rivalutati i contributi versati, è stata addirittura negativa. Con ipotesi economiche un po’ più realiste, le stime fornite dal rapporto Brambilla (grafici 10.4 e 10.5) per i tassi di sostituzione netta (ovvero quelli più elevati) sono comunque nell’ordine del 70 per cento.
Un rapido raffronto con i tassi di sostituzione ottenuti da chi è andato in pensione con il sistema precedente alla riforma Amato del 1992 sembra suggerire che i trentenni di oggi non avranno pensioni molto più basse di chi li ha preceduti.
Ad esempio, una persona nata nel 1950, iniziando la sua carriera lavorativa a 20 anni e andando in pensione nel 2007 a 57 anni con 37 anni di contributi avrebbe ottenuto un tasso di sostituzione lordo del 74 per cento, di solo 5 punti più elevato di un lavoratore nato nel 1980, almeno in base alle stime più ottimistiche del rapporto Brambilla.
Quanti anni di contributi e quanti di benefici
Tuttavia, non bisogna fermarsi alla generosità della pensione annua, calcolata dai tassi di sostituzione. Proviamo a chiederci anche quanto hanno contribuito al sistema i diversi lavoratori e per quanto tempo otterranno i benefici previdenziali.
Al lavoratore nato nel 1950, entrato nel mercato del lavoro nel 1970, è stata applicata (congiuntamente al suo datore di lavoro) un’aliquota contributiva del 20,5 per cento, salita poi al 24,5 per cento nel 1983. Durante il suo ultimo anno di lavoro, nel 2007, l’aliquota contributiva era del 32,8 per cento.
Per il lavoratore nato nel 1980, invece, sin dall’inizio l’aliquota contributiva è stata pari al 32,8 per cento. Poiché è difficile credere che in futuro le aliquote contributive diminuiscano – è semmai più probabile che aumentino – il lavoratore del 1980 avrà pagato nell’arco della sua vita lavorativa contributi ben più elevati di quelli versati dal lavoratore del 1950.
Anche la durata della pensione avvantaggia il lavoratore del 1950. Se fosse andato in pensione nel 2007 a 57 anni, sulla base della speranza di vita residua per un uomo, avrebbe in media ben 27 anni durante i quali percepire un beneficio previdenziale – ovvero fino all’età di 84 anni.
Il lavoratore del 1980 vivrà di certo più a lungo – si stima fino a 87 anni – ma andando in pensione a 70 anni, avrà “solo” 17 anni di pensioni: ben dieci in meno del lavoratore del 1950.
Il rapporto Brambilla mostra dunque che è possibile (o quasi) equiparare la generosità delle pensioni per queste due generazioni di lavoratori, ma è necessario aumentare di molto l’età di pensionamento dei più giovani. In questo modo, la pensione annua è quasi uguale, ma il lavoratori più giovani la riceveranno per un periodo molto più breve.
Porte aperte sul confronto
Anche l’Inps ha recentemente prodotto studi sui trattamenti previdenziali, nell’ambito dell’operazione porte aperte. Per diverse tipologie di lavoratori, è stato calcolato il trattamento previdenziale effettivamente percepito, e quello che i lavoratori avrebbero ottenuto se le pensioni fossero state calcolate con il sistema contributivo. Le analisi mettono quindi a confronto le pensioni effettivamente, e legittimamente percepite, in base alla legislazione vigente all’epoca, e quelle economicamente lecite, in base al rendimento che il sistema previdenziale può produrre.
Per tutti i lavoratori esaminati dall’Inps, le differenze sono sostanziali. Soprattutto per i lavoratori che hanno scelto di andare in pensione anticipatamente, la differenza tra i benefici previdenziali ottenuti e quelli economicamente leciti può essere nell’ordine del 25 per cento.
Tutti questi dati mostrano chiaramente che – rispetto a quanto otterranno domani i giovani lavoratori – le pensioni passate e presenti sono state – e continuano a essere – più generose. Si può dibattere sulla scelta di tassare questa differenza oppure di non voler toccare i diritti acquisiti, soprattutto per pensionati ormai molto anziani e con pensioni basse. Ma nascondere l’evidenza non aiuterà certo a risolvere il confronto intergenerazionale.
Fonte: laVoce
5 maggio 2015