Fino a ieri l’esito delle elezioni regionali catalane, che il governo uscente intende presentare come un plebiscito sull’indipendenza, rimane ancora molto incerto. Secondo le ultime rilevazioni Junts pel Sì e la Candidatura d’Unitat Popular (Cup), rispettivamente il ‘listone ‘ e gli indipendentisti dell’ala civica del movimento, dovrebbero ottenere insieme tra i 67 e i 70 seggi, con la soglia di maggioranza a 68: le percentuali di voto tuttavia non supererebbero il 44%. La differenza è importante, perché da una parte JpS insiste sulla maggioranza parlamentare come sufficiente per proseguire nel cammino dell’indipendenza, mentre la Cup – i cui seggi sono peraltro necessari per la maggioranza in Parlamento – insiste anche sulla necessità di una percentuale di votanti superiore al 50%. Stando ai sondaggi infatti, il “listone” indipendentista dovrebbe avere la maggioranza dei seggi, ma non quella dei voti. Differenza che potrebbe rivelarsi politicamente decisiva: uno scenario in cui l’indipendenza non vince, ma si guadagna il diritto a riprovarci, a breve o medio termine. Il 28 settembre certamente ne sapremo di più. Nell’attesa vi suggerisco la lettura di questo saggio di Luigi Pandolfi, laureato in scienze politiche, giornalista pubblicista, scrive di politica ed economia su vari giornali, riviste e web magazine, tra cui Micromega, Il Manifesto, Linkiesta, Economia e Politica.
di Luigi Pandolfi
Grande attesa in Spagna per il voto in Catalogna, in calendario per il prossimo 27 settembre. Un test dai molteplici significati, certamente non riconducibili alla sola, ed annosa, questione dell’indipendenza della Comunità autonoma da Madrid. Le forze indipendentiste, non essendo riuscite ad ottenere dalla Corte costituzionale il via libera per la celebrazione di un referendum secessionista, hanno pensato bene di trasformare questa consultazione elettorale per il rinnovo del Parlamento locale in un plebiscito sulla permanenza, o meno, della Comunitat Autònoma de Catalunya nello Stato spagnolo; i partiti tradizionali, invece, la considerano anche un banco di prova in vista delle elezioni politiche nazionali in programma per il prossimo mese di dicembre.
In mezzo Podemos (Podem, in catalano), con i suoi alleati di sinistra, alla ricerca di una conferma sul loro reale stato di salute, soprattutto dopo l’epilogo inatteso della vicenda greca. Da un lato, quindi, un listone indipendentista capeggiato dal presidente uscente Artur Mas, denominato Junts pel Si (Uniti per il sì), che raggruppa, oltre ai nazionalisti di Convergència Democràtica de Catalunya, la sinistra repubblicana dell’Erc (Esquerra Republicana de Catalunya), dall’altro i socialisti, i popolari, i populisti conservatori di Ciutadans e l’alleanza che vede insieme Podemos, Izquierda Unida e Ia sinistra rosso-verde (Catalunya Si que es Pot). Nel fronte indipendentista, ma fuori dalla lista unica, c’è anche il Cup (Candidatura d’Unitat Popular), formazione che coniuga separatismo e radicalismo di sinistra, che potrebbe essere l’ago della bilancia nel nuovo Parlamento.
I sondaggi che circolano in queste ore sembrano convergere su un dato: le forze indipendentiste potrebbero conquistare la maggioranza dei seggi al Parlament, ma non la maggioranza dei suffragi. Circostanza che vanificherebbe il tentativo di Mas e della sua coalizione di sfruttare il voto per accelerare sul processo di divisione da Madrid. Si tratterebbe, in ogni caso, solo di un rinvio, stante il consenso, comunque largo, di cui la proposta secessionista ormai gode tra i catalani. Sarà anche per questo che le voci su una possibile “grande coalizione” tra socialisti e popolari dopo le elezioni di dicembre, nel nome dell’unità della Spagna, si fanno sempre più insistenti.
Ma una Catalogna indipendente potrebbe stare nell’Unione europea? La domanda circola molto in questi giorni di campagna elettorale, per questo il presidente uscente Artur Mas si è affrettato a dire che «l’Europa è pragmatica, non si priverà di sette milioni di cittadini», sottolineando, inoltre, che «cacciare la Catalogna dall’Europa non sarebbe possibile in base ai trattati vigenti». Non la pensa così Josep Antonio Duran Lleida, leader dell’Unión Democrática de Cataluña (Udc), che ha rotto con il partito di Mas lo scorso mese di giugno, secondo il quale «nessuno riconoscerebbe a livello internazionale il nuovo Stato e forte sarebbe il rischio di instabilità economica». Più duro Francesc de Carreras, intellettuale di destra, tra i fondatori di Ciutadans – data come seconda forza politica nei sondaggi – che ha paragonato la Catalogna di oggi alla Germania del 1933. «È quella la direzione di marcia di questi signori», ha tuonato contro gli indipendentisti.
Intanto a Madrid si lavora ad una riforma dei poteri della Corte costituzionale, per trovarsi pronti nel caso di una dichiarazione di secessione della Generalitat di Barcellona. Ipotesi, quest’ultima, al momento molto improbabile, stando anche alle ultime prese di posizione dei leader di Junts pel Si, più caute rispetto a quelle di qualche settimana fa.
Sebbene una «declaración unilateral de independencia (Dui) sia contemplata nel programma di Convergència Democràtica, l’obiettivo prioritario dei separatisti, in una prima fase, sarebbe quello di «accumulare forze per aprire un negoziato con lo Stato». In questo senso va letta l’ultima dichiarazione di Artur Mas, che ha parlato di «soluzione win-win» per risolvere il contenzioso, nel senso di una soluzione che accontenterebbe sia la Spagna che la Catalogna, dalla quale entrambe potrebbero trarre vantaggi.
In questo clima, il tentativo della coalizione di sinistra Catalunya Si que es Pot è quello di spostare l’attenzione dal tema dell’indipendenza a quello della lotta all’austerità e alla corruzione. Argomenti non certo secondari in questa campagna elettorale, visti i tagli alla spesa sociale degli ultimi anni e l’inchiesta per finanziamenti illeciti che pesa sul partito del presidente uscente. Mentre il dibattito tra le altre forze politiche si avvita sempre più sul tema della secessione, insomma, Podemos e ed i suoi alleati cercano di sparigliare parlando di sanità pubblica, lavoro, ambiente e mobilità.
E sul futuro, sia politico che economico, della Catalogna propongono «patto costituente» a tutte le forze politiche, che porti alla celebrazione di un referendum attraverso il quale i cittadini catalani «possano decidere liberamente il loro modello economico, sociale e politico». «Soberanía para decidirlo todo» («la sovranità di decidere tutto») è il loro slogan, in linea con l’idea di democrazia diretta e partecipativa che caratterizza in tutta la Spagna gli eredi del movimento degli indignados.
I sondaggi li accreditano di un buon 13%, davanti a popolari e socialisti, che sarebbe un risultato di tutto rispetto, vista la polarizzazione della campagna elettorale sul tema dell’indipendenza. Pablo Iglesias, finora, non è entrato nel dibattito elettorale catalano, ma il capolista di Catalunya Si que es Pot Lluís Rabell ha assicurato che il leader di Podemos sosterrà la loro richiesta di referendum con la sottoscrizione di una «dichiarazione comune d’intenti».
Nel grande fermento europeo, insomma, la Catalogna fa la sua parte. Per sapere quanto potranno incidere le elezioni catalane sul futuro spagnolo ed europeo, bisognerà però aspettare ancora cinque giorni, il 27 di settembre.
Fonte: Linkiesta
22 settembre 2015
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