Storie di donne migranti nel ventunesimo secolo

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Le donne rappresentano circa la metà dei flussi migratori internazionali. Spesso, diversamente dal passato, intraprendono da sole il viaggio verso il paese di destinazione. Chi sono queste donne? Da dove vengono? Perché partono? E a quali prospettive vanno incontro?

di Catherine Wihtol de Wenden

Meno visibile rispetto agli uomini – i quali ricevono molta più attenzione da parte dei media per le loro odissee migratorie ad alto rischio, per la diversità dei ruoli sociali, per i lavori che essi svolgono all’aperto (nei settori dell’edilizia e delle opere pubbliche, dell’agricoltura, delle miniere e del commercio) e per il loro ruolo all’interno delle società di origine e di accoglienza –, la componente femminile costituisce il 48% dei flussi migratori internazionali secondo il rapporto stilato nel 2013 dalla Divisione Popolazione delle Nazioni Unite. Le donne hanno tuttavia superato gli uomini in numero, e rappresentano il 51,6% dei migranti nelle regioni sviluppate (migrazioni sud-nord e nord-nord) e il 43% dei migranti nelle regioni in via di sviluppo. Le donne sono particolarmente numerose nelle fasce d’età sopra i 65 anni (55,8%) e mostrano una distribuzione differente nei vari continenti: il 45,9% in Africa, il 41,6% in Asia, il 51,9% in Europa, il 51,6% in America Latina e nei Caraibi, il 51,2% in America del nord e il 50,2% in Oceania. Il numero di migranti supera invece quello delle migranti in Asia (58,4%) e in Africa (54,1%). Dietro queste cifre si nasconde tuttavia una grande varietà di situazioni che accompagnano i cambiamenti verificatisi nei flussi migratori internazionali negli ultimi vent’anni.

Donne che migrano ‘da sole’

Per molto tempo, le migranti sono state associate al fenomeno del ricongiungimento familiare durante gli anni di crescita del flusso migratorio nei paesi europei, e sono state relegate alla sfera privata. Madri di famiglie spesso numerose, le donne si uniscono alla migrazione maschile poco qualificata qualche anno dopo l’arrivo dei primi migranti, spesso in condizioni molto difficoltose (nelle bidonville, in alloggi precari e fatiscenti, nelle periferie poco servite dai trasporti pubblici) e con un accesso limitato ai diritti in considerazione del loro scarso livello di conoscenza delle lingue parlate nei paesi di accoglienza, della loro scolarizzazione limitata o nulla, e del loro modo di vivere spesso rurale. Successivamente è iniziato il periodo dei rifugiati (siamo negli anni ottanta e novanta), durante il quale si sono configurate varie categorie di donne migranti: coloro che hanno preso parte alla riunificazione familiare dopo l’ottenimento dello status di rifugiato da parte del congiunto (spesso con molte lungaggini amministrative riguardanti il riconoscimento del loro stato civile e di quello dei figli nati durante la permanenza in un paese di transito); quelle che appartenevano alla categoria degli sfollati interni nei paesi in crisi (che vivevano talvolta nei campi d’accoglienza nel sud della Francia); e le migranti che sono arrivate da sole per sfuggire a regimi o società che le discriminavano in quanto donne ed eventualmente in quanto nubili.

I paesi d’accoglienza hanno visto il consolidamento della posizione delle migranti all’interno delle aree urbane in crisi, come femmes relais[1], come mediatrici tra istituzioni pubbliche e popolazione, e come militanti che si fanno portavoce di drammi privati, ad esempio nel caso di bambini o adolescenti uccisi dalle forze di polizia nella totale impunità. Nelle metropoli, in misura maggiore, alcune intellettuali rifugiate hanno scritto e fornito testimonianze sulla loro condizione di donne e migranti. Spesso il testimone è stato poi raccolto dalle generazioni provenienti dal contesto migratorio (che non possono più essere considerate migranti dal momento che sono nate nel paese d’accoglienza), entrando, in modo più massiccio rispetto alla generazione precedente, nella vita attiva, politica e associativa (donne elette a livello locale, attiviste civili). C’è tuttavia un altro aspetto che le ha rese più visibili. Per le donne di fede musulmana, si tratta del velo: le migranti e le seconde generazioni, a partire dalla metà degli anni ottanta, hanno talvolta rivendicato il diritto di vivere la propria identità musulmana apertamente, dando vita a numerosi dibattiti, in Francia e in Europa, sulla compatibilità di questa cultura islamica rivendicata esteriormente con le società secolarizzate nelle quali tali donne vivono. Il dibattito ha riguardato anche il loro abbigliamento (prêt-à-porter islamico, burqa) nel luogo di lavoro (privato o pubblico) e per strada. Altro aspetto ricorrente nel dibattito politico è la loro fertilità, che si suppone essere molto superiore a quella delle native, quando invece, contrariamente a quanto si crede, la prima si avvicina alla seconda nel corso del tempo, sia nel paese di accoglienza che in quello di origine, soprattutto sulla riva meridionale del Mediterraneo. 

Sempre più numerose sono le migranti che, quando partono, si lasciano dietro un congiunto; ciò avviene sia per effetto di una forte scolarizzazione nei paesi di origine, che permette loro di migrare da sole e di cercare di entrare nel mercato del lavoro qualificato, sia per il fatto che esse sono ricercate all’interno di nicchie occupazionali molto specifiche: babysitter, collaboratrici domestiche, assistenti per persone anziane, infermiere, addette ai lavori sartoriali, commercianti o prostitute che accompagnano i migranti nel loro viaggio. Queste risultano essere particolarmente vulnerabili sia durante il viaggio verso il paese di destinazione, in quanto possono subire violenze sessuali da parte di scafisti e trafficanti, sia nel paese di destinazione dove vivono in uno stato di irregolarità, sfruttamento lavorativo e prostituzione, a volte per ripagare il costo del viaggio da clandestine. Vengono tuttavia sottoposte a meno controlli rispetto agli uomini, sono meno presenti nei centri di custodia temporanea, e meno coinvolte nelle attività illecite. Tra coloro in possesso di un titolo di studio, numerose sono le migranti che subiscono una doppia discriminazione, sia in quanto straniere – dal momento che il loro titolo di studio non è riconosciuto – sia in quanto donne, relegate a svolgere lavori considerati tipicamente femminili (part-time, segreteria, assistenza ai malati, centraliniste nei call centre, ecc.). Molte vivono in forte isolamento a causa del lavoro domestico, confinate all’interno delle abitazioni dei loro datori di lavoro, e scarsamente informate sui loro diritti. L’irregolarità del loro status aggrava ulteriormente la situazione: solo coloro che sono in possesso di un titolo di studio più elevato e sono meglio integrate possono aspirare a regolarizzare la propria posizione e a svolgere un lavoro che corrisponda alle proprie qualifiche. Le migranti irregolari, con o senza titolo di studio, si troveranno a essere fortemente dequalificate. Ma tutte coloro che sono partite da sole acquistano nella migrazione stessa uno status familiare che le affranca dalla tutela maschile che veniva loro imposta nel paese d’origine. Tale affrancamento deriva dal fatto che esse inviano denaro destinato al benessere della loro famiglia rimasta in patria. Per questo, il governo filippino ha eretto nella capitale una statua in onore della donna filippina, per rendere omaggio a queste eroine che inviano a casa gran parte dei loro guadagni sotto forma di trasferimento di fondi. 

La doppia discriminazione

La discriminazione può manifestarsi in una selezione di tipo lavorativo nelle professioni considerate ‘femminili’, o in ragione della loro condizione specifica.

Prendiamo il caso delle cinesi, la cui migrazione di grandi dimensioni a partire dagli anni novanta è indirettamente collegata alla politica del figlio unico: far arrivare una figlia senza documenti permetteva di farla sparire dalle statistiche amministrative e allo stesso tempo consentiva di dare uno status di legalità al secondo figlio. Le migranti cinesi sono venute in Europa per lavorare nel comparto tessile, spesso in condizioni di neoschiavismo, con orari di lavoro massacranti durante i periodi di forte domanda e di picchi produttivi. Costoro venivano di solito accolte dai loro familiari già residenti nel paese di destinazione; questi ultimi, in molti casi, avevano provveduto a pagarne il viaggio, le ospitavano e offrivano loro il vitto, senza possibilità per le migranti stesse di ribellarsi. Alcune tra le più anziane, dopo aver cresciuto il proprio figlio, iniziano a prostituirsi intorno ai quarant’anni, come ad esempio avviene nel quartiere parigino di Belleville, in cambio di 20 euro, senza alcuna protezione né assistenza medica, al fine di mandare denaro a casa. Altre vivono in famiglia, e lavorano nel settore della ristorazione.

In rapporto alla popolazione del paese d’origine, il gruppo più nutrito di donne migranti è quello delle filippine, le quali si sono specializzate nei lavori del settore della ‘cura alla persona’ negli Stati Uniti e in Europa, e nei lavori domestici nei paesi del Golfo. La loro posizione è stata spesso regolarizzata in Italia (dove vengono chiamate “badanti”[2]) – un paese fortemente colpito dall’invecchiamento della popolazione e nel quale allo stesso tempo scarseggiano le strutture d’accoglienza – dal momento che gli elettori, sia di destra sia di sinistra, hanno voluto attribuire loro uno status permanente nella cura degli anziani. In queste stesse professioni, troviamo anche le polacche e le rumene, inizialmente giunte senza documenti e che ora lavorano liberamente in Europa. Costoro si collocano in una dimensione di mobilità come modo di vivere, tra il ‘qui’ e il ‘là’, grazie a mezzi di trasporto poco costosi (autobus, voli low cost), annullando così le distanze. Tutto ciò crea delle difficoltà all’interno delle famiglie che queste donne si lasciano alle spalle in patria, dove la madre è assente e altre lavoratrici, provenienti dall’Ucraina o dalla Bielorussia, vengono a volte a dar loro il cambio nelle attività di cura dei più giovani e dei più anziani. Una migrazione a catena si verifica dunque verso queste nicchie di un mercato del lavoro fortemente segmentato e poco ambìto dai cittadini del paese d’accoglienza, anche se disoccupati. Troviamo inoltre le latinoamericane e le africane. Per l’assistenza alle persone anziane che spesso non parlano alcuna lingua straniera, la selezione viene effettuata anche in funzione della lingua parlata (l’inglese e lo spagnolo per le filippine, il francese per le africane e le magrebine).

Da più di trent’anni a questa parte, le portoghesi lavorano come addette alla portineria e come collaboratrici domestiche in città, sostituendosi a volte alle spagnole. In Spagna, abbiamo le giovani marocchine che lavorano come raccoglitrici stagionali di frutta e verdura. Spesso vengono scelte tra le madri di famiglia nel proprio paese d’origine per evitare che possano essere tentate dall’idea di rimanere nel paese d’accoglienza. In Marocco, le subsahariane in età matura lavorano come venditrici di prodotti africani per accompagnare i migranti irregolari che si sono provvisoriamente stabiliti in questo paese di transito. Nel Golfo, sono le filippine che hanno fatto maggiormente parlare di sé per quanto riguarda le violenze subite. La selezione-discriminazione può avvenire in entrambi i modi. Complessivamente, costoro si mobilitano poco in quanto si concentrano in lavori poco sindacalizzati, restano isolate nel loro lavoro e sono fortemente dipendenti dai datori di lavoro che le hanno fatte arrivare.

Traiettorie e prospettive

Tornando ai dati delle Nazioni Unite, possiamo constatare che le migranti rappresentano la metà dei migranti internazionali in Europa, Russia, Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, nel cono sud dell’America Latina e nella parte meridionale del continente africano (con l’eccezione del Sudafrica e dei paesi limitrofi). Sono invece meno del 50% nella maggior parte del continente africano, in tutto il Medio Oriente, in India, in Cina, nel Sud-est asiatico e in America Latina (con l’eccezione del cono sud). Possiamo dunque rilevare come le migranti seguano una traiettoria essenzialmente sud-nord e nord-nord mentre sono in numero inferiore agli uomini per quanto riguarda le migrazioni sud-sud e nord-sud. Esse s’inscrivono quindi all’interno di vecchi schemi migratori piuttosto che all’interno delle più moderne forme di fuga dei cervelli da nord verso i paesi emergenti o sud-sud. Le ragioni di ciò sono molteplici: alcune culture rendono difficile la partenza di una migrante da sola; tanto nel paese di partenza quanto in quello di arrivo, le donne delle nazioni arabe hanno un tasso di occupazione più basso rispetto ad altre realtà (cosa che d’altronde rende i loro paesi dipendenti dai flussi migratori, se essi dispongono di risorse da sfruttare, come nel Golfo); inoltre, le crisi e i conflitti del pianeta coinvolgono in via preponderante le donne del sud del mondo, spingendole verso una migrazione interna e non necessariamente internazionale. Lo stesso dicasi per i profughi ambientali. Infine, le prospettive demografiche, i progressi in termini di scolarizzazione, l’avanzata dell’urbanizzazione e delle sfide ambientali, la diffusione dell’informazione e il cambiamento dei ruoli femminili giocano a favore di una migrazione femminile di entità pari, o superiore, a quella maschile. I recenti vertici mondiali sulla migrazione e lo sviluppo e sulla governance globale delle migrazioni hanno inserito nel proprio ordine del giorno l’uguaglianza dei diritti di donne e uomini nella migrazione. Resta ancora da combattere una battaglia lunga e difficile a livello mondiale. Tuttavia, l’obiettivo rientra tra le priorità delle tematiche della governance mondiale delle migrazioni di oggi, come discusso al Dialogo di alto livello su migrazione internazionale e sviluppo, svoltosi a New York nell’ottobre del 2013, e al Forum mondiale sulle migrazioni e lo sviluppo, tenutosi a Stoccolma nel maggio del 2014.

NOTE

[1] Con tale termine, si intendono le migranti che lavorano come operatrici sociali all’interno della comunità. Svolgono una molteplicità di ruoli – interpretariato, mediazione culturale, ecc. – al fine di facilitare l’integrazione dei nuovi migranti e delle loro famiglie all’interno della società di accoglienza (N.d.T.). 

[2] In italiano nel testo 

Fonte: inGenere

22 aprile 2015

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