La prevenzione della corruzione non può essere lasciata solo ai segretari comunali, come prevede la legge attuale. L’inchiesta Mafia Capitale ne è la conferma. Meglio creare nuclei alle dipendenze funzionali dell’Autorità anticorruzione, anche per rafforzare le sue funzioni di prevenzione
L’inchiesta di Mafia Capitale, al di là dei suoi contenuti processuali, rivela un fatto che appare abbastanza chiaro: la normativa anticorruzione vigente, così come è impostata, non funziona.
Di certo, le varie norme sulla prevenzione della corruzione e sulla trasparenza approvate sin dal 2012 – dunque ben prima che il caso romano esplodesse – non sono state in grado di fare da argine agli eventi corruttivi diffusissimi presso il comune di Roma, ma anche nelle tante altre amministrazioni nelle quali si scoprono fatti simili, anche se di portata mediatica inferiore.
Eppure, la legge 190/2012, nota appunto come “anticorruzione”, contiene disposizioni esplicitamente rivolte a garantire l’inattaccabilità degli appalti dalle trame dei soggetti privati. Non solo: la legge qualifica a particolare rischio di corruzione – oltre alla materia degli appalti – anche quelle delle sovvenzioni pubbliche, dei procedimenti amministrativi che attribuiscono concessioni o provvedimenti similari, nonché quella dei concorsi pubblici.
Peraltro, esiste ormai da tempo un Piano nazionale anticorruzione, mentre le varie amministrazioni si sono dotate di propri piani triennali di prevenzione della corruzione, nei quali sono esplicitate in dettaglio le misure per prevenire esattamente quei fenomeni tipici evidenziati dall’inchiesta romana: affidamenti di contratti senza appalti, continue proroghe o rinnovi, capacità dei soggetti privati interessati all’acquisizione degli appalti di influenzare nomine e incarichi dirigenziali.
La disciplina anticorruzione non ha funzionato – a Roma come in molte altre occasioni – per una ragione molto semplice: l’assenza di controlli da parte di soggetti terzi rispetto all’amministrazione.
La poca indipendenza del segretario comunale
Negli enti locali, la funzione anticorruzione è assegnata per legge ai segretari comunali. Il problema è, però, che questi non sono organi indipendenti e autonomi: devono il loro incarico e la stessa possibilità di rimanere in servizio (pena revoca e il possibile licenziamento) al sindaco e alla giunta. Dunque, il livello di autonomia nel presidio della legittimità dell’azione amministrativa è evidentemente influenzato da una condizione di precarizzazione del loro incarico, che ormai risale a quasi venti anni fa, all’entrata in vigore della legge Bassanini, la 127/1997.
La sostanziale inefficacia e debolezza dei soggetti che dovrebbero operare per garantire i comuni dalla corruzione è tale che il disegno di legge delega di riforma della pubblica amministrazione ne prevede l’abolizione. La funzione anticorruzione sarà affidata a un dirigente ancor meno autonomo del segretario comunale.
Per contribuire a combattere gli episodi come quelli di Roma occorrerebbe corroborare la normativa anticorruzione con la creazione di strutture e uffici esterni agli enti, in grado di effettuare attività di controllo preventivo sugli atti “sensibili”, così da intercettarli prima che possano produrre gli effetti nocivi.
L’Autorità nazionale anticorruzione da sola non può farcela: troppo piccola per seguire tutte le amministrazioni. Allo stesso modo, segretari comunali o dirigenti – il cui incarico e lavoro sia esposto alla discrezionalità di chi ha il potere di revocarli o confermarli – non dispongono di potere e autorevolezza tali da garantire davvero il filtro necessario alla lotta alla corruzione.
Sarebbe opportuno che l’Autorità anticorruzione venisse dotata di uffici di livello territoriale, in auspicabile coordinamento con le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti.
Non si tratta di creare nuova burocrazia e costi, ma di selezionare tra i dirigenti e funzionari pubblici già in servizio quelli dotati di profili ed esperienza utili per la funzione anticorruzione e costituire così nuclei specializzati, posti alle dipendenze funzionali dell’Anac. Il loro operato potrebbe essere sorretto dalle direttive generali indicate dall’Autorità (potrebbe essere sufficiente il Piano nazionale anticorruzione) e riguardare le modalità di attuazione dei piani triennali anticorruzione, oltre che estendersi a controlli su singoli atti, come in particolare l’approvazione di progetti, bandi di concorso, provvedimenti di aggiudicazione.
In questo modo, si garantirebbe una più capillare funzione anticorruzione e una reale autonomia dei soggetti competenti, evitando di porli alle dipendenze degli enti sui quali dovrebbero esercitare il controllo.
Fonte: lavoce.org
1 luglio 2015