La Commissione europea ha messo nero su bianco le condizioni per utilizzare la “flessibilità” prevista dalle regole del Patto di stabilità e crescita. Già le molte clausole previste potrebbero annullarne l’efficacia. Ma soprattutto non è così che si risolvono i problemi dell’Italia e dell’Eurozona
Il fatto che il 13 gennaio 2015, con una “comunicazione”, la Commissione europea abbia finalmente messo nero su bianco le condizioni per utilizzare la cosiddetta “flessibilità” prevista dalle regole del Patto di stabilità e crescita deve far rivedere i giudizi generalmente negativi con cui la stampa del nostro paese ha liquidato il semestre di presidenza italiana appena terminato? Forse. Ma forse sì o forse no?
Le comunicazioni della Commissione sono arrivate proprio in zona Cesarini. Ma il ritardo si potrebbe imputare non all’inedia o all’incapacità della presidenza di turno italiana quanto all’incredibile lentezza con cui la Commissione è stata nominata e al fatto che il famoso piano Juncker per gli investimenti (European fund for strategic investments – Efsi) è stato approvato dal Consiglio europeo soltanto il 19 dicembre.
Il documento, redatto con il tipico, ripetitivo linguaggio euro-burocratico, conferma fin dalla prima pagina che le regole non vengono cambiate, ancorché si siano rivelate controproducenti e complicatissime. La flessibilità che il documento regola riguarda sia gli investimenti che le riforme strutturali.
Quanto agli investimenti, la flessibilità consiste nel fatto che 1) i contributi finanziari degli Stati membri all’Efsi non verranno contati come ulteriore deficit per il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine (medium-term budgetary objective – Mto), per i paesi che si trovino nel “braccio preventivo” del Patto di stabilità e 2) non scatterà la procedura per deficit eccessivo, prevista per i paesi che si trovino nel “braccio correttivo”, qualora il non rispetto dei valori di deficit e debito previsti vengano superati esclusivamente a causa dei contributi finanziari all’Efsi. Inoltre, si potrà applicare (pei paesi nell’ambito del braccio preventivo) la “clausola investimenti”, che riguarda progetti decisi e finanziati a livello nazionale e che contribuiscano a innalzare il tasso di crescita potenziale e la sostenibilità delle finanze pubbliche in modo verificabile. Le spese relative a tali investimenti potranno essere escluse dal calcolo della deviazione dal Mto di ciascun paese.
Ma non in tutti i casi. Infatti, la comunicazione prevede che la “clausola investimenti” sia condizionata al fatto a) che la crescita del Pil sia negativa o che il Pil “rimanga ben al disotto del potenziale (risultante in un output gap superiore dell’1,5 per cento del Pil)”; b) la deviazione non porti a superare la fatidica soglia del 3 per cento del rapporto deficit/Pil; c) la deviazione sia dovuta a investimenti all’interno di progetti cofinanziati dalla UE o a cofinanziamenti nazionali di progetti cofinanziati dall’Efsi; d) i cofinanziamenti non sostituiscano spesa per investimenti interamente finanziata a livello nazionale (affinché non diminuisca la spesa totale per gli investimenti); e) gli Stati che beneficiano della clausola compensino le deviazioni e raggiungano il loro Mto entro quattro anni. È plausibile che l’insieme di queste condizioni finisca per essere così restrittivo da vanificare in gran parte la clausola. Anche le riforme strutturali (il principale “compito a casa” secondo Bruxelles, Francoforte e Berlino) hanno la loro “clausola”, che consente deviazioni dal sentiero maestro di raggiungimento del Mto (sempre, quindi per i paesi che si trovano nell’ambito del braccio preventivo).
Le condizioni poste dalla Commissione per l’applicazione della clausola sono che le riforme siano “di peso”, cioè abbiano un impatto consistente e positivo sulla crescita e la finanza pubblica nel lungo periodo. Si citano a questo proposito la riforma delle pensioni (segnatamente l’introduzione di un pilastro basato sul sistema di capitalizzazione) e quella della sanità (che per avere impatto consistente e duraturo sulla finanza pubblica deve tradursi o in riduzione della copertura “assicurativa” o in riduzioni dei costi, cioè in buona parte in riduzioni degli stipendi). Inoltre si richiede che le riforme siano pienamente realizzate (se non sono state approvate dal Parlamento nazionale non potranno neanche essere inserite nella “domanda per l’applicazione della clausola”.
Inoltre, anche la clausola riguardante le riforme strutturali è sottoposta a vari vincoli: (i) la deviazione dal Mto non deve superare lo 0,5 per cento del Pil e, di nuovo, il Mto deve essere comunque raggiunto entro quattro anni; (ii) la soglia fatale del 3 per cento non venga superata. Per il resto, la comunicazione fornisce qualche chiarimento sull’entità degli aggiustamenti fiscali per il raggiungimento del Mto in relazione ai valori assunti dall’output gap. Nulla si dice, invece, circa le criticatissime metodologie di stima dell’output gap e del potenziale di crescita, che sfornano dati mutevoli anche retrospettivamente e introducono elementi di pericolosa pro-ciclicità nella politica di bilancio.
PROBLEMI IRRISOLTI
Questa nuova flessibilità serve all’Italia? Sì, ma non troppo. Serve forse a ridurre l’entità dello scostamento del bilancio approvato con la Legge di stabilità dal sentiero previsto per il raggiungimento del Mto, se si riuscirà a soddisfare tutte le condizioni che abbiamo visto. E se si farà in fretta a fare entrare in circolo le risorse, cosa in cui né l’Italia né la Commissione eccellono. Si parla, se tutto andasse bene, di una riduzione dell’aggiustamento dallo 0,5 per cento del Pil allo 0,25 per cento.
Ma lo scostamento di bilancio può tornare ad aumentare qualora nuove stime dovessero rivedere verso il basso il potenziale di crescita e il potenziale e, quindi, venisse ridotto l’output gap negativo, con conseguente nuovo aumento dell’aggiustamento necessario.
Un po’ di respiro, dunque per il Governo, ma la dimensione degli interventi consentiti non è certo tale da garantire il rilancio dell’economia nella misura e nei tempi (brevi) necessari. Del resto, il rilancio italiano è impossibile senza un rilancio di tutta l’area euro. Questa nuova flessibilità serve, allora, all’Eurozona? Di nuovo sì, ma di nuovo non troppo.
Perché si continua a guardare la politica di bilancio come una faccenda esclusivamente nazionale, di cui l’Europa fissa solo regole, limiti e punizioni. Fatta eccezione per il famoso (e fumoso) piano Juncker. Si continua a ignorare lo “scandalo” che tutta l’Eurozona ha output gap negativi (in buona parte prodotti dalle politiche fiscali raccomandate o imposte dalla Commissione e dai maniaci dei “compiti a casa”); un tasso di inflazione molto al di sotto dell’obiettivo del 2 per cento; efficacia espansiva della politica monetaria molto ridotta visto che i tassi di interesse sono già a zero e non serve inondare di liquidità le banche che non sanno a chi prestare i soldi, dato il crollo della domanda di credito e il livello delle sofferenze in molti paesi del Sud-Europa.
Al contempo, alcuni paesi (la Germania innanzitutto) hanno uno “spazio fiscale” molto maggiore di altri per fare politiche espansive. Data l’esistenza di forti esternalità di domanda e finanziarie tra i paesi della moneta unica, sarebbe necessario un accordo cooperativo per un’espansione concordata (o una riduzione delle tasse finanziata con l’emissione di moneta), in cui i diversi paesi facessero la loro parte in proporzione allo spazio fiscale che hanno.
Con beneficio di tutti i paesi dell’area, in primo luogo quelli che, pur avendo spazio fiscale o addirittura il bilancio in pareggio, potrebbero tranquillamente ignorare la nuova “flessibilità” e continuare a lesinare sulle spese di investimento e a mantenere elevata la pressione fiscale, limitando così i consumi interni e non favorendo perciò la crescita (almeno delle esportazioni) dei partner europei.
Ha ragione Simon Wren Lewis, una stagnazione dovuta a carenza di domanda aggregata è stupida. Purtroppo, la flessibilità “comunicata” dalla Commissione non aiuta molto a superare la stupidità. Dunque: successo del semestre di presidenza italiana? Forse ni.
Fonte: laVoce
20 geannaio 2015