Madre casalinga e padre macellaio, nata in un paesino vicino a Rijeka, nata nel ’68, alta e bionda, Kolinda ha una figura che si impone. Secchiona fin da piccola, a scuola ha sempre avuto risultati brillanti, alle superiori per uno scambio internazionale, vola già a Los Alamos, poi si laurea a Zagabria
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Il 9 novembre 1989 crolla il Muro di Berlino. Cos’è rimasto di quella gioia
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Una storia di occasioni mancate
L’industria del computer in URSS ebbe un rapido sviluppo fino all’inizio degli anni Settanta quando il governo effettivamente ridusse le innovazioni. Alcune di queste conoscenze sono ancora così preziose che rimangono classificate
di Aram Ter-Ghazarjan, RIR
Subito dopo la seconda guerra mondiale il governo di Stalin cominciò a riconoscere la necessità di realizzare una svolta tecnica nel settore industriale e scientifico mentre iniziava la guerra fredda, che richiese la mobilitazione delle risorse intellettuali della nazione. Dai primi anni ’50 l’URSS aveva creato un’industria informatica moderna. Tuttavia, all’inizio degli anni ’70 il governo sovietico decise di porre fine a questi sviluppi unici e di piratare i sistemi occidentali. Di conseguenza, il progresso di un intero settore fu interrotto.
Primi passi: dall’URSS al futuro
I primi passi verso la creazione di una piccola calcolatrice elettronica (MESM) avvennero nel 1948 in un laboratorio segreto di Feofanija, nei pressi di Kiev. Il lavoro era supervisionato da Sergej Lebedev, al tempo direttore dell’Istituto di Ingegneria Elettrica. Propose ed attuò i principi di una macchina per calcoli elettronici con un programma di archiviazione. Nel 1953 Lebedev guidò il team che creò la prima grande calcolatrice elettronica, nota come BESM-1.
Fu assemblata a Mosca presso l’Istituto di meccanica di precisione ed ingegneria informatica. I personal computer furono prodotti dall’Istituto di Cibernetica di Kiev negli anni ’60 nella serie che comprese i computer Mir-1, Mir-2 e Mir-3. Questi erano personal computer con tutte le caratteristiche necessarie, memoria e capacità per l’impiego nelle industrie dell’epoca. I sistemi informatici originali in URSS non furono unificati sotto uno standard comune, neanche entro la singola serie. I computer moderni non potevano “capire” i predecessori.
Le macchine erano incompatibili per i criteri su capacità digitali e periferiche. Per via dell’assenza di norme unificate e per una strategia di sviluppo sbagliata, l’industria dei computer sovietica cominciò ad seriamente a rallentare all’inizio degli anni ’70. Andrej Ershov, uno dei fondatori dell’informatica in Unione Sovietica, dichiarò apertamente che se Viktor Glushkov non avesse cessato di sviluppare la serie Mir, i migliori personal computer al mondo sarebbero stati creati in URSS.
L’errore fatale: piratare IBM
Nel 1969 le autorità sovietiche decisero di chiudere tali sviluppi e iniziare a creare computer basato sulla piattaforma IBM/360. In altre parole, decisero di piratare i sistemi occidentali. “Fu la peggiore decisione possibile“, dice Jurij Revich, storico e programmatore. “Il governo sovietico e in parte i costruttori erano da biasimare per il fatto che l’industria avesse cessato di svilupparsi autonomamente. Ogni gruppo rimase isolato e il regime di segretezza facilitò le diverse soluzioni tecnologiche, prese in prestito dalle riviste scientifiche occidentali“.
A parere di Revich, ciò fece rallentare l’industria dei computer sovietica. Quando l’Unione Sovietica lanciò il suo primo mainframe ESEVM nel 1971, gli Stati Uniti erano già passati alla successiva generazione di IBM/370. “Gli sviluppatori dovettero compiere una quantità importante di lavoro, non inferiore a quello per creare un computer da zero, come tradurre i programmi e molto altro“, spiega Revich. “Ma il risultato fu del tutto inadeguato. La scienza mondiale perse molto a causa di tale decisione“.
Negli anni ’80 l’industria dei computer ristagnava. “Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, c’erano due o tre tipi di computer nel Paese“, ricorda Maksim Moshkov, fondatore di Lib.ru, prima biblioteca elettronica della Russia. “Al lavoro c’erano due scatole delle dimensioni di una scrivania, alta 1,5 metri, che gestiva i calcoli salariali ordinari dei dipendenti“.
Ha spiegato che le scatole contenevano 16 megabyte di RAM ed erano controllate da un team di 15 programmatori, amministratori e tecnici. “I calcolatori stranieri lavoravano in modo simile“, aggiunge Moshkov. Molte menti dell’informatica sovietica si trasferirono all’estero.
Vladimir Pentkovskij, che lavorava presso l’Istituto Lebedev di meccanica di precisione ed ingegneria informatica, è diventato lo sviluppatore leader del microprocessore Intel e fu sotto la sua guida che l’azienda creò il processore Pentium, nel 1993. Pentkovski utilizzò le conoscenze acquisite in URSS per sviluppare l’Intel. Nel 1995, Intel lanciò il più moderno processore Pentium Pro, che in termini di capacità era vicino al microprocessore russo El-90 del 1990.
I supercomputer russi
Nel 2007-2010, quando il governo ha iniziato a finanziare attivamente le scienze, dopo una pausa di 15 anni, gli scienziati russi e bielorussi hanno creato congiuntamente la serie di supercomputer SKIF (SKIF è l’acronimo russo per SuperComputer IniziativaFeniks).
Un altro supercomputer, AL-100, è stato avviato nel 2008, la cui massima produttività raggiunge i 14,3 Tflops. AL-100 comprende 336 processori Intel Xeon 5355e ha 1344 GB di RAM. Il supercomputer Lomonosov è stato creato nel 2009. Questa macchina è composta da tre tipi di nodi e processori con diverse architetture computazionali.
Il supercomputer è utilizzato per risolvere intensivi problemi di scienza computazionale sviluppando algoritmi e software per potenti sistemi di calcolo. Lomonosov è tra i primi 500 più potenti supercomputer del mondo.
Fonte: Aurora traduzione di Alessandro Lattanzio
28 settembre 2014
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ANNIVERSARIO. Sacco e Vanzetti, condannati per un’accusa falsa, puniti per la loro dissidenza politica
“Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. […] Ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora”.
Bartolomeo Vanzetti scolpiva nella storia le sue parole d’onore e di verità, in un’aula di tribunale. Era il 19 aprile 1927 e dinanzi al giudice l’anarchico italiano imbastì un discorso fiero e commosso, che era già un discorso di commiato: il suo destino, e quello dell’amico Nicola Sacco, era scritto. Lo sapevano tutti, persino i muri di quel tribunale di Dedham, in Massachusetts. Lo sapevano i poliziotti, gli avvocati, i procuratori, i rappresentanti del governo, i giornalisti. Lo sapevano i due dead men walking, proletari figli dell’utopia, stritolati tra il valore supremo della giustizia, perseguito dal popolo, e l’esercizio dell’ingiustizia, subdola strategia del potere.
Due uomini retti, Sacco e Vanzetti. Due vittime designate, contestatori non violenti di un sistema xenofobo e fintamente democratico, disposto a sacrificare ogni “nemico interno” sull’altare dell’autoconservazione. Nemici interni erano gli stranieri, così come i comunisti, gli anarchici, i sovversivi, oggetto di quella “paura rossa” che negli anni Venti – così come nei primi Cinquanta – divenne mitologia collettiva, sfociata in politiche persecutorie. Bisognava dare una lezione alla società. Bisognava raccontare la dissidenza come il peggiore dei mali e spiegare che la sicurezza degli americani dipendeva da quella stretta feroce inflitta ai ribelli, ai diversi.
Sacco e Vanzetti, immigrati in America agli inizi del Novecento, erano un calzolaio e un pescivendolo. Impegnati in battaglie politiche e civili: manifestazioni, scioperi, volantinaggi, chiedendo più diritti per la classe operaia. La loro vicinanza al movimento anarchico, così come quella condizione di poveri clandestini, emarginati da una società classista, ne fecero due agnelli sacrificali ideali. Il loro fu un processo esemplare, costruito ad hoc sulla base di un’accusa indimostrata – l’assassinio di due uomini durante una rapina, a Boston – utile ad offrire agli americani due condannati perfetti.
Così volle il Governatore Alvan T. Fuller, così volle il giudice Webster Thayer, che li chiamò “bastardi anarchici”. E così, con una colpa non loro, nonostante la sollevazione internazionale, i due “wops” (“senza documenti”, temine dispregiativo con cui si bollavano gli immigrati italiani) finirono i loro giorni in cella, nel penitenziario di Charlestown. Qui, il 23 agosto del 1927, morirono sulla sedia elettrica. Per non aver commesso il fatto. A cinquant’anni da quell’”errore giudiziario”, sapientemente architettato, Michael Dukakis, governatore del Massachusetts, ammise i vizi del processo e riabilitò la figura dei due innocenti.
Il 23 agosto 2014, 87esimo anniversario dalla loro morte, il mondo ritrova un filmato inedito di 4 minuti e mezzo: sono le immagini dei funerali, affollatissimi e presidiati da centinaia di poliziotti, girate clandestinamente dagli operatori del Defense Committee, un comitato di sostegno messo su a Boston dall’anarchico e giornalista toscano Aldino Felicani.
Il documento rimase nascosto, a causa del divieto delle autorità di filmare e fotografare l’evento: troppo rumore intorno a quella vicenda, troppi sospetti, troppe paure. Rintracciato, finalmente, il girato è adesso al centro di un tour commemorativo che è partito dall’Istituto De Martino di Sesto Fiorentino (22 agosto), per proseguire il 25 a Torremaggiore (Foggia), borgo natale di Sacco, e il 28 a Villafalletto (Cuneo), dove nacque Vanzetti.
24 agosto 2014