Il video dell’attrice alle Nazioni Unite è stato visto milioni di volte online, ma le è costato una serie di minacce e attacchi su internet
di Giulia Siviero
Domenica 21 settembre l’attrice britannica Emma Watson – che ha 24 anni, è considerata molto brava, è nota soprattutto per essere stata la Hermione dei film di Harry Potter e si definisce una femminista – ha tenuto un discorso sui diritti delle donne a New York, in qualità di nuova ambasciatrice del settore UN Women delle Nazioni Unite. Per dieci minuti circa ha promosso la campagna “He for She” (“lui per lei”) parlando soprattutto agli uomini, e invitandoli a fare qualcosa per ridurre le disuguaglianze di genere. Il video del discorso è circolato moltissimo online in questi giorni.
Emma Watson è partita da sé, come nelle migliori tradizioni oratorie femministe: ha detto di essere stata scelta ambasciatrice dell’ONU sei mesi prima e ha parlato delle difficoltà legate alla parola “femminismo”, soprattutto per come viene recepita dagli uomini ma anche da alcune donne:
«Più ho parlato di femminismo e più mi sono resa conto che troppo spesso battersi per i diritti delle donne era diventato sinonimo di odiare gli uomini. Se c’è una cosa che so con certezza è che questo deve finire. Per la cronaca, il femminismo per definizione è la convinzione che uomini e donne debbano avere pari diritti e opportunità: è la teoria dell’uguaglianza tra i sessi – politica, economica e sociale»
Emma Watson ha detto – il testo integrale del discorso in italiano è qui – di aver cominciato a mettere in discussione le costruzioni sociali basate sul genere quando era una bambina:
«Quando avevo 8 anni, ero confusa dal fatto che mi definissero una prepotente perché volevo dirigere la recita per i nostri genitori: ma ai maschi non succedeva. Quando avevo 14 anni ho cominciato a essere trattata come un oggetto sessuale da alcuni media. Quando avevo 15 anni le mie amiche hanno cominciato a lasciare le squadre degli sport che amavano perché non volevano diventare muscolose. Quando avevo 18 anni i miei amici non erano capaci di esprimere i loro sentimenti. Ho deciso di diventare femminista e la cosa non mi sembrava complicata. Ma le mie ricerche più recenti mi hanno fatto scoprire che “femminismo” è diventata una parola impopolare. Le donne si rifiutano di identificarsi come femministe. A quanto pare sono considerata una di quelle donne le cui parole sono percepite come troppo forti, troppo aggressive contro gli uomini, persino non attraenti. Perché questa parola è diventata così scomoda?»
Vanno fatte a questo punto due precisazioni di contesto. La prima è che non c’è una definizione univoca della parola “femminismo”, infatti è più semplice parlarne al plurale: ci sono diversi orientamenti teorici e politici del femminismo legati a storie, culture e ambiti linguistici differenti. La definizione di femminismo scelta da Watson è dunque solo una delle tante e fa riferimento al cosiddetto “femminismo paritario” o “femminismo di stato”, che deriva a sua volta dalla prima ondata del movimento delle donne, quello dell’emancipazionismo suffragista ottocentesco. La seconda ondata – Simone de Beauvoir ne fu una delle fondatrici – mette al centro della discussione non il concetto di parità ma quello di differenza: non negando la parità dei dritti, sostiene che solo attraverso l’accettazione delle differenze tra i generi si possa raggiungere una vera uguaglianza.
I femminismi contemporanei hanno continuato a lavorare sui concetti di identità e differenza, affermando che la parità funziona come un principio omologante e nasconde in realtà la cancellazione della soggettività femminile e dei suoi diritti: l’esempio più evidente è nella frase “tutti gli uomini sono uguali per natura” o nell’espressione “suffragio universale” applicata da giuristi e filosofi per lungo tempo a tutti-gli-uomini con esclusione delle donne. In tutto questo dibattito si inserisce una questione molto discussa e attuale, quella delle cosiddette “quote rosa”: la contestazione principale che le femministe contemporanee rivolgono al principio quantitativo della parità si può riassumere nella frase “donne, purché piacciano agli uomini”.
La seconda precisazione riguarda invece la domanda posta da Emma Watson, su cui hanno lavorato anche molte teoriche ed esponenti del femminismo: quando si pronuncia la parola “femminismo”, si viene subito catturati in una serie di stereotipi che fanno in realtà riferimento al femminismo radicale di ambito statunitense che ha delle posizioni politiche in linea con la destra americana per quanto riguarda ad esempio i diritti transgender o la prostituzione, e che afferma che la causa dell’oppressione delle donne è una e ben precisa: gli uomini. Si tratta però solo di una parte del movimento, che è fortemente criticata all’interno del movimento stesso e che allo stesso tempo, nel senso comune, viene associata al pensiero femminista in generale. Emma Watson faceva dunque riferimento a questa operazione: a come certe posizioni radicali abbiano contribuito a rendere tutto il femminismo qualcosa che in realtà non è.
Proseguendo nel suo discorso, Emma Watson ha spiegato di essere britannica e per questo di essere stata fortunata:
«I miei genitori non mi hanno voluto meno bene perché sono nata femmina; la mia scuola non mi ha limitata perché ero una ragazza; i miei maestri non hanno pensato che sarei andata meno lontano nella vita perché un giorno avrei potuto avere un figlio. Queste persone erano i miei ambasciatori della parità tra i sessi e mi hanno resa la persona che sono oggi. Forse non ne sono consapevoli, ma sono dei femministi involontari che stanno cambiando il mondo. Abbiamo bisogno di più persone come loro. E se ancora odiate la parola, sappiate che non è la parola a essere importante ma l’idea e l’ambizione che quella parola rappresenta».
Poiché «nessuna nazione al mondo può dire di aver raggiunto la parità di genere», Emma Watson ha chiesto come sia possibile «cambiare il mondo quando soltanto la metà del mondo è invitato a questo cambiamento o si sente a suo agio a partecipare alla conversazione». E si è rivolta quindi direttamente agli uomini, parlando degli stereotipi da cui loro, per primi, dovrebbero liberars:
«Uomini, vorrei cogliere questa opportunità per farvi un invito formale. La parità di genere è anche un problema vostro. Perché fino a oggi ho visto il ruolo in famiglia di mio padre considerato meno importante dalla società, nonostante da piccola avessi bisogno della sua presenza tanto quanto quella di mia madre. Ho visto giovani uomini affetti da malattie mentali, incapaci di chiedere aiuto per paura di apparire meno “maschi”.
(…) Ho visto uomini resi fragili e insicuri dalla percezione distorta di cosa sia il successo maschile. Neanche gli uomini hanno i diritti della parità di genere. Non si parla molto spesso di come gli uomini siano imprigionati negli stereotipi di genere che li riguardano, ma vedo che lo sono. E quando se ne saranno liberati, le cose cambieranno di conseguenza anche per le donne. Se gli uomini non devono essere aggressivi per essere accettati, le donne non si sentiranno in dovere di essere sottomesse. Se gli uomini non devono avere il controllo per sentirsi tali, le donne non dovranno essere controllate. Sia gli uomini che le donne devono sentirsi liberi di essere sensibili. Sia gli uomini che le donne devono sentirsi liberi di essere forti: è tempo di pensare al genere come uno spettro, e non come a due insiemi di valori opposti.
Se smettiamo di definirci l’un l’altro in base a cosa non siamo, e cominciamo a definire noi stessi in base a chi siamo, possiamo essere tutti più liberi. (…) Voglio che gli uomini prendano su di sé questo impegno, in modo che le loro sorelle, madri e figlie possano essere libere dai pregiudizi, ma anche perché ai loro figli sia permesso di essere vulnerabili e umani, rivendicando quelle parti di loro che hanno messo da parte e diventando così la versione più vera e completa di loro stessi.
Magari starete pensando: che vuole questa tipa di Harry Potter? E che cosa ci fa sul palco dell’ONU? Una buona domanda. Me la sono fatta anch’io. Non so se ho le qualifiche per essere qui. Tutto quello che so è che mi importa di questo problema e che voglio far sì che le cose migliorino. Avendo visto quello che ho visto e avendone l’opportunità, sento che dire qualcosa è una mia responsabilità. (…)
Nella mia agitazione per questo discorso, e nei miei momenti di insicurezza, mi sono fermamente detta: se non io, chi? Se non ora, quando? Se avete dei dubbi simili ai miei, quando vi si presentano delle occasioni, spero che queste parole vi siano d’aiuto. (…) Se credete nella parità, potreste essere voi uno di quei femministi involontari di cui ho parlato prima. E per questo, mi complimento con voi».
Il discorso alle Nazioni Unite di Emma Watson ha avuto un grande successo: è stato ripreso da molti media in tutto il mondo e il video su YouTube ha superato i 3 milioni di visualizzazioni. Nei giorni successivi diversi uomini hanno pubblicato foto e messaggi a sostegno della campagna con l’hashtag #HeForShe. Ma nei giorni successivi ci sono stati anche molti messaggi violenti contro Emma Watson, pubblicati su Twitter e in particolare sul social network 4chan (lo stesso che tra sabato 20 e domenica 21 settembre ha pubblicato di nuovo alcune foto rubate a famose attrici e modelle statunitensi). Watson è stata minacciata di morte ed è stato scritto che sarebbero state messe onlinenei prossimi giorni anche delle sue foto private. Alcuni hanno usato quella minaccia per farsi pubblicità, creando un sito in cui compariva un conto alla rovescia con l’ora e la data in cui le immagini di Watson avrebbero dovuto essere pubblicate e che si è rivelata poi un’azione di marketing contro 4chan organizzata da una società per promuoversi.
La storia non è nuova: diverse femministe e donne che si sono esposte pubblicamente hanno infatti ricevuto minacce su Internet. Tra gli esempi più recenti ci sono l’attacco alla creatrice di videogiochi Zoe Quinn e quello raccontato dalla giornalista statunitense Amanda Hess proprio in un articolo sulle molestie sessuali su Internet. L’agente di Emma Watson ha comunque commentato che le reazioni negative alle parole dell’attrice sono la dimostrazione più chiara che c’è gran bisogno della campagna “He for She”.
Fonte: ilPost
24 settembre 2014