L’Europa disunita sulla sicurezza sul lavoro

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In Italia la normativa sulla sicurezza sul lavoro è ipertrofica e sostanzialmente inapplicabile. Anche perché l’Unione Europa ha adottato misure complesse che ogni paese ha recepito in modo autonomo. Servono norme scritte a livello continentale e con le aziende. Il problema della responsabilità

Bacchinidi Francesco Bacchini

Il tema della salute e sicurezza sul lavoro, in Italia, dopo decenni di legislazione contraddittoria e disordinata, finalmente è regolato da un Testo unico (ultima edizione maggio 2014) che dovrebbe semplificarne l’applicazione. Peccato che il corpus legislativo continui a essere mastodontico e ingestibile: 314 articoli divisi in 12 titoli (l’ultimo, il 10 bis, è dello scorso febbraio), 52 allegati (ma in realtà sono 53, perché il terzo contiene due parti) per un altro migliaio di regole tecniche, organizzative e procedurali. Al Testo unico devono poi aggiungersi numerose altre regole di dettaglio e aggiornamento: fino a oggi sedici decreti ministeriali attuativi, quattro accordi della conferenza Stato-regioni, svariate decine di circolari ministeriali (che in qualche caso, in modo decisamente improprio, sono state utilizzate per dare veste giuridica a indicazioni e procedure elaborate dalla commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro), interpelli e note. Senza parlare, poi, di una quantità di altri provvedimenti normativi collegati, molti dei quali, fra l’altro, pur riferendosi all’ormai abrogato decreto legislativo n. 626/1994, ancora pervicacemente sopravvivono e, naturalmente, della giurisprudenza.

LA POSIZIONE DELLE AZIENDE

Con questa ipertrofia normativa non stupisce che la sicurezza del lavoro venga percepita e trattata in azienda come un insieme di adempimenti burocratici indigesti. È un corpo estraneo e costoso, materia per tecnici e non per manager. Certo, nel Testo unico ci sono apprezzabili riferimenti alla centralità dell’organizzazione aziendale nella gestione sistemica degli adempimenti di salute e sicurezza. In qualche modo, viene riconosciuta l’importanza della pianificazione degli adempimenti decisi nel processo di autovalutazione dei rischi. Insomma, qualche tentativo di semplificazione (anche se timido e inefficace) c’è. Ma viene sistematicamente sconfitto da un sistema di regole tanto dettagliate e minuziose da non poter essere mai veramente rispettate. È una normativa troppo capillare che si scontra ogni giorno con infinite difficoltà applicative, con l’assoluta imprevedibilità e asistematicità di quanto capita in qualsiasi normale gestione aziendale. La legge fa riferimento a una dimensione “ideale” di azienda non meglio determinata, senza nessi significativi con le dimensioni produttive reali in cui va applicata. Sappiamo che la stragrande maggioranza delle aziende italiane sono individuali o microimprese, non hanno una struttura capace di consentire l’applicazione di tecniche di gestione e controllo che la legge dà per scontate. Ma anche nelle aziende di dimensione maggiore si evidenziano problemi insuperabili: l’adempimento e il controllo delle norme di sicurezza in tutte le fasi produttive è una delle sfide più complesse del fare azienda oggi. Sfida che viene semplicemente elusa. E tutto ciò rende spesso impossibile determinare se l’obbligo di legge risulti adempiuto o meno, finendo per scoraggiare gli investimenti che ne dovrebbero discendere. L’azienda (e il management) fa quello che può, non quello che ci si immagina dovrebbe fare.

UN SISTEMA REPRESSIVO

Poi ci sono le tante (troppe?) sanzioni penali o amministrative: il sistema è solo repressivo, non premiale. Legislazione e giurisprudenza attribuiscono la responsabilità oggettiva principalmente ai vertici strategici, di fatto spesso deresponsabilizzando gli operativi. Un orientamento che va in direzione opposta a tutte le tecniche di gestione aziendale oggi in voga, con organizzazioni “piatte” (lean) e condivisione della responsabilità a tutti i livelli. Difficile dunque meravigliarsi se sono proprio i lavoratori in prima linea a considerare la sicurezza una seccatura e non un requisito essenziale. Tutta l’azienda finisce per ritenere la materia della prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali “altro da sé”, un accidente al quale adattarsi per costrizione e mai un’opportunità. Anzi, spesso le procedure di sicurezza diventano una specie di momento di schizofrenia: da un lato l’azienda fa quello che ritiene giusto fare (anche se magari non è la cosa migliore o non è sufficiente), dall’altro deve fingere di ottemperare a una legge impossibile da applicare. In questo modo è molto difficile che cresca e si sviluppi una cultura aziendale della sicurezza sul lavoro effettivamente sentita e condivisa.  

Perché questa trasformazione possa avvenire deve cambiare l’orientamento della cultura manageriale aziendale nei confronti della sicurezza da intendersi non più come un vincolo imposto per legge o un semplice imperativo morale, bensì come un’opportunità strategica. Non più un costo improduttivo, ma un investimento competitivo e tecnologico-organizzativo. Tutto questo però non può succedere se non cambia il sistema normativo, che deve essere ripensato, semplificato, ridotto, chiarito e adattato all’organizzazione del lavoro e della produzione industriale attuale e non astrattamente presunto.

LA SICUREZZA SECONDO L’EUROPA

Poi c’è il livello europeo, che si basa sulla direttiva quadro 89/391/Cee e su trentuno direttive particolari (senza contarne circa altrettante su aspetti correlati), tutte fonti vincolanti a livello di principio che necessitano di atti di recepimento e attuazioni in sede nazionale. Provvedimenti che ogni singolo Stato membro ha preso in maniera autonoma e disomogenea creando un quadro ingestibile: non esistono due paesi dell’Unione che abbiano norme neanche facilmente compatibili. Si potrebbe dire che la complessità italiana è figlia anche della complessità europea, e che l’Europa, invece di legiferare sui dettagli, dovrebbe emanare un regolamento obbligatorio semplificato da applicare integralmente senza deroghe in tutti gli Stati membri e ciò proprio perché la difformità delle regole costituisce un evidente fattore di distorsione della concorrenza. Le norme sulla sicurezza vanno, dunque, scritte per le aziende e con le aziende a livello continentale, perché si prestino a essere interpretate in modo omogeneo dagli organi di vigilanza e dalla magistratura. E con un maggior equilibrio nell’attribuzione delle responsabilità: se i lavoratori devono avere più certezze sulla tutela della loro salute e sicurezza, anche imprenditori e manager hanno diritto a una ragionevole certezza e garanzia di non essere automaticamente inquisiti, giudicati e condannati a causa di adempimenti oggi opinabili per limiti normativi e interpretazioni controverse.

Fonte: laVoce

26 novembre 2014

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